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«Le donne che fanno valere i propri diritti per la ‘ndrangheta sono un pericolo da eliminare»



Vincenzo Chindamo, fratello dell’imprenditrice scomparsa a Limbadi lo scorso 2016, lancia un appello «a chiunque possa contribuire a ricostruire la strada verso la verità». «Superiamo l’humus cultu…

Pubblicato il: 22/01/2021 – 6:34
«Le donne che fanno valere i propri diritti per la ‘ndrangheta sono un pericolo da eliminare»



LAMEZIA TERME «Non soltanto noi, ma un’intera comunità, enti ed associazioni chiedono a gran voce la verità. Oggi non siamo più soli». Il tempo scorre, ma la voce di Vincenzo Chindamo, negli studi de L’altro Corriere Tv come ospite di Ugo Floro e Danilo Monteleone del talk 20.20, rimane ferma per quanto difficile sia evitare di essere travolti da un turbine di sentimenti contrastanti nel raccontare vita e scomparsa della sorella Maria.
Recenti dichiarazioni hanno aggiunto ulteriori strade ad un labirinto che sempre in lontananza lascia intravedere la luce della verità. Ogni parola, ogni dettaglio può essere determinante. Vincenzo lo sa e per questo rilancia a gran voce un appello: «Chiunque ricordi qualcosa di quel giorno lo dica, anche con una lettera, in forma palese o anonima. Anche se è un qualche particolare che può sembrargli insignificante». 
“Quel giorno” era un venerdì. Il 6 maggio 2016 Maria Chindamo scompare nei pressi di una sua tenuta a Limbadi, nel Vibonese. Da allora, la vita del fratello Vincenzo, della madre Pina, dei tre figli e di un’intera comunità cambia.

«UNA DONNA LIBERA E DINAMICA» Vincenzo Chindamo descrive la sorella Maria come «una donna dinamica, affrancata dalle logiche retrograde che si vivono in determinati contesti sociali». Le origini sono umili, ma di significato. «La nostra era una famiglia semplice. I nostri genitori, due insegnanti, ci hanno cresciuti con determinati valori e lei già da piccola aveva un carattere molto forte, ribelle, che guardava al futuro. Prendeva le sue decisioni spesso in contrasto rispetto al mondo che la circondava perché voleva essere un passo avanti».
Durante gli studi conosce Ferdinando che diventerà suo marito. Quando i due decidono di sposarsi, Maria aveva solo 21 anni. Vincenzo racconta che questa scelta fu vissuta in famiglia «con grande gioia, ma anche con un po‘ di preoccupazione» data la giovane età. 
Poco dopo arriva il primogenito. «Anche dopo la nascita del figlio, Maria volle continuare a studiare per laurearsi in economia e commercio. La ricordo ancora col figlio su una gamba e il libro sull’altra». La laurea arriverà poco tempo dopo, seguita dall’abilitazione alla professione di commercialista e dalla nascita della altre due figlie. Decide di aprire il suo studio e gestire, insieme al marito, l’attività dell’azienda agricola.
Poi la decisione: «Maria – racconta Vincenzo – percepisce che qualcosa non va, annuncia di volersi separare e si sposta a casa di nostra madre, a Laureana di Borrello. Il marito vive male questo annuncio e non viene nemmeno aiutato da chi in quel momento lo circondava. Non è stato tranquillizzato, non è stato invitato a guardare più in là». 
Vincenzo descrive l’ex cognato come «una brava persona» ma «intorno a lui c’era chi buttava benzina sul fuoco». Poco tempo dopo l’allontanamento di Maria, Ferdinando Punturiero tenta per la prima volta il suicidio, ma viene fermato in tempo, proprio grazie all’intervento di Vincenzo e di un suo amico. «Fu Maria ad avvertirmi di andare da lui e ci precipitammo in tempo per togliergli l’arma di mano. Lo guardai negli occhi e mi resi conto che non era più lui». Il suicidio avverrà il successivo 8 maggio 2015. L’evento scuote l’intera famiglia, alimentando veleni tra la famiglia di Ferdinando e la stessa Maria, additata in qualche modo di aver innescato le dinamiche che avevano portato a quell’evento. 
Prima della scomparsa, inizia così un anno difficile per Maria Chindamo che insieme ai figli riesce a poco a poco a ritrovare il sorriso e la forza per andare avanti. 
«Sembrava esserci stato un crescendo di una situazione tranquilla durante un anno difficilissimo da affrontare». Il 5 maggio 2016, giorno prima della scomparsa, Vincenzo e Maria sono a pranzo insieme: «Mi ricordo che lei era felice. Aveva ritrovato quel suo modo di affrontare la vita sorridendo. Quando ci salutammo ero contento di averla vista un po’ più sollevata: era di nuovo lei».
«PERCHÉ LO STATO NON È INTERVENUTO PRIMA?» La mattina del 6 maggio 2016, Maria Chindamo si sveglia presto per raggiungere la sua tenuta a Limbadi. Alle 7.20 un operaio bulgaro che avrebbe dovuto trovarsi con lei quella mattina chiama Vincenzo. La macchina è ancora accesa, così come l’autoradio. Intorno però il silenzio pare descrivere la scena di un atroce delitto. «Quando ho ricevuto la chiamata non riuscivo a realizzare e ripetevo: “Maria dov’è?”. Quando sono arrivato ho subito visto il sangue e la sua borsa sul sedile vicino a quello del guidatore».
Da quel giorno le ricostruzioni giornalistiche, le testimonianze, le indagini si sono susseguite per fare luce su molti punti ancora oggi oscuri. L’ultima ricostruzione è stata offerta da un collaboratore di giustizia, Antonio Cossidente, appartenente al clan lucano dei basilischi. Cossidente afferma di aver appreso da Emanuele Mancuso, noto pentito dell’omonima cosca di Limbadi, delle cruente dinamiche relative al sequestro, all’uccisione e alla distruzione del cadavere di Maria Chindamo. 
L’atrocità del racconto ha fatto subito tornare alla mente casi simili come quello del piccolo Giuseppe Di Matteo e di Lea Garofalo. Casi generati «da un abisso d’odio, di sentimenti raccapriccianti da quanto sono infernali, di macellai di carne umana». 
«Oggi – dice Vincenzo – ascoltando queste dichiarazioni ci chiediamo come sia possibile tutta questa violenza. Io mi arrabbio perché avremmo dovuto chiedercelo prima. Maria non è la prima, né l’unica “lupara bianca” o “lupara rosa” in questa regione, ci possiamo solo augurare sia stata l’ultima. Lo stato italiano con la sua politica, la Regione con la sua politica, i nostri Comuni, perché non se lo sono chiesti prima? Quante altre donne devono scomparire prima che si possa dare una risposta definitiva affinché queste cose non succedano? C’è quest’humus puzzolente della cultura di ‘ndrangheta, mafiosa, che vede le donne evolute come un pericolo, mi piacerebbe capire perché devono essere viste come un pericolo da eliminare ogni volta che fanno valere un loro banale diritto».
UNA DINAMICA COMPLESSA E ARTICOLATA Quello di Maria Chindamo è stato descritto a più riprese come un sequestro organizzato in grande stile, che non ha lasciato dietro scie tali da permettere di giungere alla verità, ma solo pezzi sparpagliati di un puzzle che gli inquirenti stanno cercando di mettere insieme. Quella mattina Maria era seguita da un’auto grigia che poco prima era stata vista passare dieci volte in 14 minuti. Lei era in lieve ritardo, così come l’operaio col quale aveva appuntamento, il sistema delle telecamere della tenuta di fronte – si scoprirà dalle perizie – era state manomesse. 
Ulteriore domanda da porsi é: chi può aver voluto, ordito o ordinato una tale sorte per Maria Chindamo? Da un lato la famiglia di Ferdinando, dopo la sua morte, nutriva un certo astio che si era tradotto nelle parole del suocero quando descriveva come «insana» la condotta di vita dell’imprenditrice e commercialista. Dall’altro, le recenti dichiarazioni del pentito Cossidente, fanno emergere le possibili mire della ‘ndrangheta sui terreni dei Chindamo (lo scorso settembre vittime del furto dei mezzi agricoli) quindi il coinvolgimento delle “famiglie” nella sua scomparsa e uccisione. E la “famiglia” di cui si parla sono i Mancuso. Egemoni sul territorio di Limbadi, non sono nuovi ad essere tirati in ballo in relazione a questioni riguardanti contese di terreni. Così era stato anche nel caso di Matto Vinci, fatto saltare in aria con un autobomba. Nella dichiarazione del pentito lucano torna poi il nome di Salvatore Ascone, proprietario dei terreni di fronte a quelli di Maria Chindamo; colui che avrebbe dovuto ricevere i terreni per ordine dei Mancuso. 
Ascone era stato arrestato in un primo momento per poi essere rilasciato dopo la pronuncia del Tribunale del Riesame che aveva ha di fatto annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal gip di Vibo Valentia.
Le dichiarazioni di Cossidente, che introducono elementi nuovi, sono però ancora tutte da verificare da parte degli inquirenti. 
Nel frattempo, sono passati circa cinque anni da quella scomparsa. «Siamo partiti da soli, disperati. Adesso la famiglia intorno a Maria è cresciuta, ci sono Comuni che si sono affiancati a noi; associazioni come Libera, Penelope, Unical. È stato pubblicato un bellissimo manifesto di Udi (unione donne italiane) ed istituito un premio di laurea a nome di Maria».
Un evento che ha scosso molte coscienze, dietro al quale paiono esserci meccanismi e moventi che vanno oltre il valore di semplici appezzamenti di terreno: «C’è un elemento culturale. – dice Vincenzo – L’appartenenza, la proprietà, sono concetti che risentono di questo humus culturale dove addirittura le persone sono di proprietà di qualcun altro».
La speranza sta negli occhi e nelle parole di Federica, figlia di Maria, che rimarca la sua fede in una Calabria «che tanto ancora ha da cambiare, ma tanto ha già cambiato». 
«La percezione dei giovani è fondamentale, così come la nostra, che possiamo valutare il prima e il dopo. Le scuole – conclude Vincenzo Chindamo – dovrebbero lavorare di più, essere più sensibili nel quotidiano anziché limitarsi agli eventi sporadici. Il vero cambiamento si realizzerà se continueremo tutti a remare nella stessa direzione». 
(f.d.)

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