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Il fratello del boss e le responsabilità nell’affare delle farmacie

Il Tribunale del Riesame di Catanzaro riconosce i gravi indizi di colpevolezza nei confronti di Domenico Grande Aracri. Misura cautelare cessata perché non vi è il pericolo di reiterazione del reat…

Pubblicato il: 26/01/2021 – 17:55
Il fratello del boss e le responsabilità nell’affare delle farmacie

di Alessia Truzzolillo
CATANZARO
La cosca Grande Aracri aveva bisogno di una persona “pulita” che facesse da «catalizzatore del clan» nella creazione del consorzio per inserirsi nell’affare della distribuzione dei farmaci. Per questa ragione, nel corso di una riunione del 7 giugno 2014 nella “tavernetta” a Cutro della casa del boss Nicolino Grande Aracri (dove tanti summit erano già stati registrati dagli investigatori) si decide che il volto pulito che deve rappresentare la famiglia è Domenico Grande Aracri, avvocato, fratello del boss Nicolino. Quest’ultimo non è presente perché ristretto in carcere e a presiedere la riunione – come testimoniano gli atti dell’inchiesta “Farmabusiness” – ci sono Salvatore Grande Aracri, 41 anni, Domenico Scozzafava – considerato elemento di raccordo tra la cosca di Cutro, il gruppo dei gaglianesi di Catanzaro ed il mondo della politica (nell’inchiesta è indagato l’allora assessore al personale Domenico Tallini, assieme a esperti di contabilità come i commercialisti Paolo De Sole e Raffaele Sisca) –, il commercialista Leonardo Villirillo e il sodale Giovanni Abramo. Secondo i giudici del Riesame di Catanzaro (presidente Michele Cappai, a latere Giuseppe De Salvatore e Mariarosaria Migliarino) – i quali hanno annullato la misura di arresti domiciliari nei confronti di Domenico Grande Aracri per cessazione delle esigenze cautelari – i gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’indagato – difeso dagli avvocato Gregorio Viscomi e Salvatore Staiano – sono pacifici e vengono desunti proprio a partire da quella riunione alla “tavernetta” del giugno 2014 nel corso della quale si decise di mandare avanti la figura dello “zio Mimmo”.
LA TAVERNETTA «I gravi indizi di colpevolezza – scrive il collegio – appaiono invero desumibili dalla valutazione congiunta dei contenuti della riunione programmatica avvenuta in data 7 giugno 2014, presso la “tavernetta” dell’abitazione della famiglia Grande Aracri (luogo che le indagini compiute in questa ed altre operazioni di polizia giudiziaria hanno dimostrato essere stato eletto a quartier generale della cosca Grande Aracri, ove avvenivano i summit di ‘ndrangheta presieduti dal capo della “provincia” crotonese Nicolino Grande Aracri), nonché dal riscontrato attivo coinvolgimento di Domenico Grande Aracri nell'”affare” delle farmacie, in perfetta continuità con i contenuti dei dialoghi registrati in occasione della riunione del 7 giugno 2014». Secondo Salvatore Grande Aracri doveva essere lo zio Mimmo «ad esigere il pagamento dei guadagni, anche mediante false fatturazioni da emettere nei confronti della società per inesistenti operazioni di consulenza». Doveva essere Domenico Grande Aracri a occuparsi «dell’aspetto imprenditoriale ed economico della famiglia criminale». I presenti alla riunione si trovano d’accordo, inoltre sul fatto che doveva, dal guadagno complessivo, doveva essere detratta una percentuale fissa_per remunerate l’impegno ed il lavoro che avrebbe svolto Domenico Grande Aracri».
L’INTERESSAMENTO DI ZIO MIMMO Da parte sua Domenico Grande Aracri, considerano i giudici, benché assente alla riunione alla tavernetta, non ha mancato svolgere le attività necessarie per il Consorzio: ha mantenuto contatti costanti con i soggetti coinvolti nell’affare, in specie con Paolo De Sole, partecipando a diversi incontri, cene e riunioni; si è impegnato nell’attività di reperimento di farmacisti da affiliare nel consorzio; ha partecipato alle attività intese all’individuazione della sede del Consorzio e al reperimento ed all’organizzazione dei beni strumentali (come tra l’altro un silos e un sistema gestionale informatico) alla attività commerciale in via di avviamento; ha avuto un incontro con un dirigente medico dell’Asp di Vibo Valentia; si è interessato dei pagamenti per la ristrutturazione dei locali da adibire a punti vendita di parafarmacie con il marchio “Farmaeko”; è sempre risultato informato della gestione quotidiana del Consorzio Farma Italia, esercitando una attività di vigilanza sul buon funzionamento dell’ente consortile, tanto che in più occasioni i soggetti coinvolti nella gestione del consorzio si sono preoccupati di non commettere errori per non fare brutte figure con lui.
GRAVITA’ INDIZIARIA «Il coinvolgimento di Domenico Grande Aracri nell’affare – scrivono i giudici –, e la riconducibilità a quest’ultimo di tutte le condotte poc’anzi descritte, con assunzione di ruolo risultato del tutto in linea con quello di soggetto “pulito” al quale nel corso del summit del 7 giugno 2014 si era deciso di affidare la gestione, per conto della famiglia, dell’operazione del farmabusiness, nonché di controllare che l’investimento economico della cosca fosse messo a frutto, induce il Collegio a ritenere pienamente sussistente a suo carico la gravità indiziaria» contestata nel reato di trasferimento fraudolento di valori aggravato dalle modalità mafiose. Secondo i giudici, inoltre, Domenico Grande Aracri sapeva bene quale ruolo stava svolgendo e per conto di chi.
«Altrettanto deve ritenersi con riferimento all’aggravante dell’agevolazione mafiosa, apparendo evidente dalla partecipazione all’affare, con ruolo corrispondente a quello che gli era stato “ritagliato” nel corso della riunione, e dal legame parentale sussistente con gli appartenenti alla cosca (l’odierno indagato è fratello del boss Nicolino), che il Domenico Grande Aracri abbia agito con la consapevolezza degli interessi sottostanti all’operazione e con la chiara intenzione di assecondare gli interessi economici della cosca».
Valutazioni pesanti per quanto riguarda i gravi indizi di colpevolezza. La misura cautelare è cessata, spiegano i giudici, perché non vi è il pericolo di reiterazione del reato visto che «il coinvolgimento della famiglia Grande Aracri nell’affare delle farmacie non è più attuale dall’anno 2017» anche perché per gli anni successivi non sono stati prodotti elementi riguardanti la partecipazione dell’indagato ad altre operazioni economiche intese ad agevolare gli interessi economici della famiglia Grande Aracri.
SALVATORE GRANDE ARACRI CLASSE ’86 Finito in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, Salvatore Grande Aracri, 34 anni, è stato messo in libertà dal Tribunale del Riesame di Catanzaro (presiedente Giuseppe Valea, Giuseppe De Salvatore, Sara Mazzotta a latere). Secondo l’accusa, il figlio dell’accoscato Antonio Grande Aracri «risulta essere figura di riferimento per risolvere eventuali controversie nel territorio, stante la carica di ‘ndrangheta in seno al locale, con indicazioni e direttive. In particolare, per conto della cosca, si occupa della lavorazione di legnami e trasporto cippato, impegnandosi a destinare parte dei proventi inerenti tale attività nella bacinella della consorteria, anche perii tramite di false operazioni contabili».
Brevi e sintetiche le motivazioni dei giudici, secondo i quali le indagini non forniscono «un tranquillante quadro di gravità indiziaria» della partecipazione di Salvatore Grande Aracri – difeso dall’avvocato Luigi Colacino – alla consorteria criminale.
Un esempio su tutti è il rinvenimenti di armi trovate nell’azienda agricola di Giuseppe Ruggero, a Cutro, nel 2017 su indicazione del collaboratore di giustizia Giuseppe Liperoti, cognato di Salvatore Grande Aracri. Secondo i giudici anche se un colloquio in carcere col padre, il 17 maggio 2017, e le rivelazioni di Liperoti, possono fare desumere che Salvatore Grande Aracri fosse a conoscenza delle armi «non è sostenibile anche la riferibilità allo stesso anche della detenzione».
La conversazione in carcere avviene, qualche giorno dopo il rinvenimento delle armi, tra Salvatore Grande Aracri, il padre Antonio Grande Aracri, Gaetano Liperoti e Maria Corsico. È salvatore Grande Aracri a riferire che era stato avvicinato dalla moglie e dalla figlia di Nicolino Grande Aracri affinché Salvatore Grande Aracri o il padre si prendessero la responsabilità delle armi. Ma il 34enne aveva opposto un netto rifiuto dicendo che le armi non erano sue. Anche Antonio Grande Aracri conferma la estraneità sua e del figlio Salvatore riguardo alle armi. Nessun cenno viene fatto in merito ad altri colloqui in carcere sull’argomento o sull’attendibilità delle parole di Liperoti il quale aveva permesso il rinvenimento delle armi e aveva indicato il luogo dell’occultamento, ovvero una dentro una ruspa Fiat 55 «avendo personalmente assistito alla modifica del mezzo per l’occultamento delle armi», come ammette lo stesso collegio.
L’AFFARE DEL CIPPATO Anche le dichiarazioni di Giuseppe Liperoti in merito al controllo sul trasporto del cippato da parte di Salvatore Grande Aracri, non attecchiscono agli occhi dei giudici. Liperoti, come evidenziato dal gip nell’ordinanza, afferma che «fra le aziende che conferiscono in biomassa vi era quella di mio cognato Salvatore Grande Aracri. Ricordo che Salvatore era solito conferire nel suo cippato residui di palma e quant’altro proveniente ad esempio dalla Puglia; mischiavamo i residui con legno vergine nel piazzale dell’azienda di mio cognato e poi si conferiva in biomassa». Il Riesame scrive che «poiché il conferimento di legname non idoneo e l’accertamento della utilizzazione di fatturazioni false, ossia per il tramite dell’utilizzo di documenti commerciali redatti da aziende autorizzate al trasporto, citando espressamente l’imprenditore Carmine Serravalle, non si apprezzano sul piano della dimostrazione della partecipazione alla consorteria, assurgendo ad autonoma attività delittuosa priva di ancoraggio con il gruppo mafioso». Liperoti, però, è chiaro: «In pratica, sempre al fine di non far comparire aziende attenzionate come quella di mio cognato o comunque per aumentare il livello di conferimento si utilizzava la fatturazione di imprese come quella di Carmine Serravalle che permettevano la regolarità amministrativa e contabile del conferimento. A conferire però erano e sono aziende diverse».
LA PRESENZA AI SUMMIT Giuseppe Liperoti afferma inoltre che Salvatore Grande Aracri accompagnava il padre ai summit di ‘ndrangheta in un casolare a Rosito di Cutro, con Nicolino Grande Aracri e soggetti di Isola di Capo Rizzuto per trattare di questioni inerenti il parco eolico e la spartizione dei proventi dei suoi lavori. Secondo il collegio «la dichiarazione di Liperoti non fa emergere un elemento connotato da gravità indiziaria, poiché non è chiaro se Grande Aracri Salvatore si recava in località Rosito di Cutro per partecipare alle riunioni, prendendo parte attiva alle varie questioni che venivano trattate, ovvero solo per accompagnare il padre, limitando unicamente a tale incombenza la sua presenza nella suddetta località».
L’AVVELENAMENTO DI LIPEROTI Dopo la collaborazione con la giustizia di Giuseppe Liperoti, che aveva sposato e avuto figli con la sorella di Salvatore Grande Aracri (e figlia dell’accoscato Antonio Grande Aracri), la cosca aveva discusso sulla possibilità di farlo avvelenare in carcere. A questo proposito omicidiario si era opposto Salvatore Grande Aracri. Lo racconterà lui stesso al padre durante un colloquio in carcere il 23 agosto 2017. «Da sottolineare, pertanto, l’autorità mafiosa di cui godeva Salvatore Grande Aracri, così da essere in grado di far desistere i propri sodali», scrive il gip. Il 34enne (sul quale vi sono dubbi da parte del Riesame se partecipasse ai summit) era stato consultato dagli altri membri della cosca ed era stato anche ascoltato. Argomento che non passa con il Riesame. I giudici infatti sostengono che «l’opposizione all’avvelenamento di Giuseppe Liperoti potrebbe esser stata motivata da ragioni di ordine familiare, condivise da coloro che avevano avanzato il proposito». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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