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Pratiche e prospettive della sanità calabrese. «Superiamo la cultura ospedalocentrica»

Dedicato al sistema sanitario, il primo di una serie di webinar promossi da “Calabria Aperta”

Pubblicato il: 29/01/2021 – 7:41
Pratiche e prospettive della sanità calabrese. «Superiamo la cultura ospedalocentrica»

CATANZARO Svolto online sulle pagine social del movimento civico “Calabria Aperta” il webinar “La salute è un bene comune”, «primo di una serie di incontri che servirà a parlare finalmente di contenuti, territori, speranze e programmi». A dirlo è Nicola Fiorita, docente Unical e coordinatore politico del gruppo che guarda alle prossime regionali nella chiave dell’analisi dei contenuti e della programmazione. Gli interventi sono stati coordinati da Ida Dominijanni e Filippo Sestito, che hanno rimarcato la volontà del gruppo di «aggregare una rete di attivisti su tutto il territorio regionale affinché i diritti possano tornare al centro del dibattito».
«E tutto quello che è stato conquistato sul piano dei diritti – sottolinea Dominijanni – non è mai piovuto dall’alto, ma è arrivato dopo lotte molto dure».
Il webinar era diviso in due parti: la prima dedicata alle “pratiche”, con le testimonianze di alcuni attivisti direttamente dai territori e la seconda alle “prospettive”, scandita dagli autorevoli interventi di Rubens Curia, Isa Mantelli e don Giacomo Panizza.
Filippo Sestito ha sottolineato come questi momenti di incontro siano importanti per il neonato movimento «per allacciare rapporti con persone e realtà che stanno portando avanti lotte su tutto il territorio». In tal senso, “Calabria Aperta” si pone come «elemento di raccordo tra le realtà sociali e del terzo settore».
LE PRATICHE La prima parte ha messo a confronto le esperienze di Cariati, in provincia di Cosenza e quella reggina di Siderno. Storie di strutture ospedaliere chiuse in seguito al “piano di rientro” del 2010 con la promessa di una riconversione in Case della salute.
Per il presidio popolare permanente che occupa da circa 70 giorni l’ospedale “Vittorio Cosentino” di Cariati sono intervenuti Mimmo Formaro dell’associazione “Le lampare basso Ionio cosentino” e il dottor Cataldo Formaro, già dipendente della stessa struttura ospedaliera oggi in pensione.
L’attivista ha sottolineato come il presidio stia chiedendo la riapertura o riconversione della struttura al fine di «garantire il diritto alle cure per le migliaia di persone prossime all’ospedale di Cariati» tra la provincia di Cosenza e quella di Crotone. Non passerelle politiche, ma «impegni concreti che non svaniscano nelle solite promesse da campagna elettorale». Motivo per il quale, fin dal giorno dell’insediamento, il commissario Guido Longo è stato invitato a visitare la struttura «per rendersi conto delle sua importanza». Il dottor Formaro spiega invece le cause che hanno portato alla chiusura, fondate soprattutto sulla sproporzione del rapporto tra sanità pubblica e privata in regione. «Basti pensare che nella sola provincia di Cosenza ci sono 57 strutture private accreditate e 8 pubbliche».
L’esperienza del comitato per la casa della salute di Siderno è molto simile ed è originata dall’iniziativa di Sasà Albanese. «Dopo aver sentito parlare di ospedali da campo mi sono chiesto perché non si potesse investire nella riapertura delle strutture chiuse nelle nostre zone».
L’ospedale di Siderno – Comune attualmente commissariato all’indomani dello scioglimento per infiltrazioni mafiose – è stato chiuso «con la promessa che venisse riconvertito in Casa della salute a fronte di un investimento di 967mila euro». Sorte simile a quella di Cariati dove però l’investimento pendente è di circa 9 milioni di euro. Risale allo scorso gennaio il decreto del commissario Guido Longo che ribadisce questa linea, ma i tempi di intervento devono essere immediati onde evitare il rischio di perdere questi fondi che l’Ue potrebbe richiamare a sé laddove non utilizzati.
«Abbiamo formato un comitato – dice Albanese – perché ritengo che dobbiamo stare al merito del problema. Tutta la comunità, la Chiesa e i commissari prefettizi devono chiedere sanità pubblica, a prescindere da qualsiasi etichetta».
Dagli interventi relativi alle pratiche è dunque emerso come il punto debole del sistema sanitario nazionale (e non solo calabrese) sia la medicina territoriale. «Un sistema basato solo sull’ospedalizzazione non va bene».
LE PROSPETTIVE La linea del «superamento della cultura dell’ospedalizzazione» è condivisa anche negli interventi successivi.
«Ci sono servizi che devono essere attinti dalla medicina territoriale perché affidarli tutti agli ospedali significa esautorarne l’attività e mandarli al collasso». A dirlo è il Rubens Curia, che interviene in qualità di portavoce di “Comunità competente”.
Curia è in prima linea dallo scorso 21 febbraio, data che indica come di inizio della pandemia che «ha segnato uno spartiacque». La riflessione parte dalla necessità di fare fronte comune per risanare le sorti della sanità regionale. «Non bisogna demonizzare il privato, ma farlo rientrare nella programmazione fatta dal pubblico. Senza programmazione accade – come sta accadendo – che sia il privato stesso a dettare le regole». L’esempio portato da Curia è quello della chiusura presso l’Asp di Reggio del laboratorio di Patologia clinica, unico nella città. «Si è determinata una situazione tipicamente calabrese: oggi quel laboratorio risulta chiuso con un decreto commissariale, ma siamo riusciti a farlo accreditare per mantenerlo in attività. Al contempo – aggiunge – non siamo riusciti a far rimuovere il dca».
Secondo Curia, in Calabria assistiamo ad uno «strisciante svuotamento del principio dell’universalismo delle cure».
«Nel 2018 le famiglie italiane hanno speso 40 miliardi in tutela della salute. Numero dal quale vanno escluse le 98mila famiglie calabresi che non hanno possibilità di pagare le cure di tasca propria».
Un sistema che non solo mortifica il diritto riconosciuto all’articolo 32 della Costituzione, ma anche i diritti “civili e sociali” richiamati nel dettato dell’articolo 117 della Carta fondamentale.
«Occorre avviare una battaglia di natura culturale che non può essere portata avanti solo dai tecnici, ma deve aggregare i movimenti come fu per quei lavoratori che conquistarono lo Statuto del 1970».
Curia si sofferma anche sul piano vaccinale evidenziando la necessità di una programmazione meglio strutturata affinché si possa arrivare a vaccinare in tempi brevi la popolazione degli over 65 (in Calabria pari a circa 425mila unità). «Considerati i ritardi e l’attuale ritmo rischiamo di impiegare 3 anni e mezzo prima di coprire questo numero».
Sempre per quanto riguarda le prospettive, si passa poi all’analisi delle ricadute sociali dei disastri sanitari della regione. Isa Mantelli, dopo aver lavorato per diversi anni al Pugliese come Nefrologa, ha deciso di dedicarsi alla realtà del “Centro Calabrese di solidarietà” oltre che a “Mondo rosa”, una casa rifugio per donne vittime di violenza.
«Esiste un lavoro dell’Oms che discute sui determinanti sociali della salute, ché non è solo la medicina, ma proviene da tanti punti. La Calabria, in tal senso, sta sul fondo delle classifiche».
«Negli anni – aggiunge – gli ospedali rispondevano ad un territorio inesistente e così sono stati tagliati i posti letto in maniera lineare. L’ospedalocentrismo ha portato ad un danno gravissimo perché la sanità non è stata più collegata con il sociale che ne è divenuto l’ancella povera». Anche per questo, il territorio dovrebbe tornare a «pullulare di Case della salute».
Poi Isa Martinelli affronta il tema delle tossicodipendenze e la mancanza di una legge sulla “doppia diagnosi” che rende monco il sistema. «In Calabria – dice – non viene considerata la co-morbilità psichiatrica. Il sociale cerca di sopperire non senza difficoltà a queste mancanze».
Linea condivisa da don Giacomo Panizza, voce della comunità “Progetto Sud”: «La Regione Calabria non ha recepito la legge sulla co-morbilità e la doppia diagnosi. Se sei dipendente da sostanze vai in comunità terapeutica ma la Regione non paga». Don Panizza ripercorre gli anni delle lotte che hanno portato alla sua attuale realtà. «Quando si parla di diritti bisogna riscoprire sempre l’importanza dei doveri, strettamente legati».
Bisogna però che le persone, soprattutto quelle bisognose di cure, «crescano nella consapevolezza che i diritti te li devi prendere. Dobbiamo lavorare prima di tutto sulle motivazioni». (f.d.)

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