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«Basta con il mantra che il Sud sia terra perduta»

di Teresa Benicasa*

Pubblicato il: 30/01/2021 – 9:31
di Teresa Benincasa
«Basta con il mantra che il Sud sia terra perduta»

Da troppo tempo le opinioni che fanno opinione, quelle cioè proferite dal fiore dei contenitori mediatici a presa rapida, seguite da milioni di italiani, offrono una narrazione distorta del Sud e della Calabria. Ne confezionano una camicia di forza in cui costringono ogni misura di ragionamento critico a una visione criminalizzante che perpetua un “razzismo bianco” insopportabile. Corrado Augias, per fare l’esempio tra i più recidivi, solo negli ultimi 60 giorni, ha ribadito la sentenziosa idea che la Calabria è «perduta e irrecuperabile» invitando, dunque, laddove qualcuno avesse un moto di vivacità, a non curarsene, a piegarsi e rassegnarsi. Peccato. Perché è esattamente quello che accade da trent’anni. Ed è esattamente il male contro cui l’intellighenzia avrebbe merito a considerarsi onesta nello sforzo opposto, quello cioè di smuovere lo stagno della coscienza, civile e politica, invece di somministrare l’eutanasia morale. Perché una domanda su quale sia il baricentro morale di questa pericolosa ideologia della razza meridionale di cui la Calabria sarebbe il male esponenziale («La Calabria è una regione dove la criminalità coincide spesso con la restante società e anche le istituzioni” ) va posta. Ciò non significa voler sfuggire ai dati della cronaca che fotografa una regione con la presenza mafiosa più potente d’Italia e d’Europa, e la povertà più alta. Significa dare senso al presente- e in ciò la storia non è un dato accessorio- poiché se si tiene chiusa la questione calabrese nei paletti della cronaca e non la si inquadra in un campo di valutazione storico-politica, non si riesce né a capire né a incoraggiare alcun tipo di cambiamento o sviluppo positivo.
Che la questione meridionale, quella oggettivata negli anni successivi all’unità d’Italia e raccolta da insigni meridionalisti ed entrata nell’agenda del Paese nella sua fase più luminosa, della liberazione dal nazifascismo e l’affermazione dei principi di giustizia e libertà a fondamento della Repubblica, sia stata colpevolmente declassata al punto da divenire una questione da destinare all’obblio, quando non confusamente interpretata dalle masse – che quanto a idee sono predisposte alla confusione di stampo neoborbonico- lo dimostrano i fatti. Assistiamo alla “distruzione strategica” di un Sud che avrebbe risorse naturali e sbocchi commerciali da vendere e che mantiene su larga scala valori di integrità morale e di civiltà testimoniati dagli “eroi” di una normalità lontana dalle orbite mediatiche. Assistiamo a una costante spoliazione della spesa pubblica produttiva che riguarda gli investimenti necessari a fare entrare nella modernità regioni che sono state lasciate indietro in tutti i settori. Basti pensare alla sanità: mediamente, negli ultimi venti anni i cittadini calabresi hanno ricevuto pro capite 15,9 euro per investimenti pubblici in sanità contro gli 84,4 euro dei cittadini emiliano-romagnoli. E invece no. Al Governo, quanto in Parlamento, i difensori della spesa assistenziale, che umilia lo spirito costruttivo delle persone, e il partito della Lega, sono inchiodati a respingere i 36 miliardi di euro previsti dal Fondo Mes che potrebbe invece risollevare la sanità pubblica e aiutare contro il coronavirus. A pensar male, sembrerebbe che vi sia un interesse a mantenere la Calabria granaio di voti di facile presa, piuttosto che emanciparla da una situazione che spinge i meridionali al nord anche per curarsi, oltre che per trovare un lavoro a misura dei propri studi e dell’ambizione di non doverlo ottenere in ginocchio.
Perché è così? Perché da venti anni i governi non si rendono conto della responsabilità di relegare il sud a un problema che tocca solo i meridionali? Perché agire come se la terra che ha sbocco sul mediterraneo non esistesse? Perché lo Stato continua a ritirarsi lasciando in avamposti solo forze dell’ordine e magistrati, che sono gli unici a rappresentarla? In Calabria la gente altro non chiede che un cambiamento e lo fa perfino con quello strumento ormai labile che è il voto. Ogni giorno in Calabria c’è gente che lotta per cambiare la propria vita e le sorti della regione. Certamente c’è anche tanta gente che al cambiamento non ci mette mano, per le ragioni che può essere difficile spiegare. Le ragioni storiche, hanno provato a spiegarle scrittori contemporanei come Mimmo Nunnari, Francesco Bevilacqua oltre a mirabili autori che li hanno preceduti, tra i quali spicca la voce dello scrittore antifascista Leonida Repaci di cui vale ricordare alcuni titoli: Il Sud su un binario morto (1963), Calabria grande e amara (1964), Racconti della mia Calabria (1931) in cui fa comprendere come i mali che affliggevano quel “pugno 15000 km quadrati di argilla verde con riflessi viola” avrebbero reso complicato la possibilità che la Calabria superasse gli ostacoli.
La narrazione che incide sulla reputazione dei meridionali è quella che viene giù per i rami di un’informazione incardinata sulla cronaca, da cui deriva l’dea che tutto è perduto e che ogni tentativo è destinato a fallire. Così facendo si dice alla Calabria di non muoversi e, quel che è peggio, si fornisce, più o meno consapevolmente, ai poteri che governano il sistema economico e politico di dire ai calabresi di muoversi con la pistola puntata alle tempie: non pensare a “come” e “perché”, fai quello che ti si dice. E neppure gli si offre la libertà di scelta.
Quel che fa specie è pensare che si possa continuare così senza assumersi la responsabilità di consegnare una parte d’Italia a una deriva che investe per intero il Paese. Tutto questo rappresenta un’ideologia pericolosa. Perché la percezione negativa del Mezzogiorno, connessa a una narrazione distorta, imposta dalla tematizzazione dei media, sulle inchieste di ‘ndrangheta, che permea il dibattito pubblico sul Sud, ha conseguenze nella vita reale del Paese. Lo spiega bene Isaia Sales, saggista e politico, che ritiene come tutto questo rappresenti un presupposto per “giustificare le scelte negative fatte dalle classi dirigenti nazionali per questa parte dell’Italia”. E non si tratta di ipotesi campate per aria. Da un recente studio, dal titolo “Buonanotte Mezzogiorno”, condotto dai sociologi Valentina Cremonese e Stefano Cristante, che hanno passato al setaccio tre decenni di servizi televisivi e articoli sulle testate nazionali, al fine di monitorare come viene rappresentato il mezzogiorno, il tema dell’illegalità svetta sull’immagine che trasmette il principale telegiornale italiano: “il Sud viene raffigurato come un luogo lontano, difficile, degradato e irrecuperabile, la questione meridionale è assorbita dal malaffare e dalla questione criminale”.
Ecco il punto che è interessante osservare: questo martellamento negativo sul Sud e la Calabria che qualcuno potrebbe considerare “solo” di immagine, in verità è stato e continua ad essere funzionale all’allocazione delle risorse pubbliche. Nell’acquiescenza generale, il mezzogiorno, a lungo andare, è diventato «un luogo estraneo al resto d’Italia, parte di un altrove misterioso e inspiegabile” e il crimine e i comportamenti illegali appaiono non come responsabilità dei singoli ( art.27 Costituzione) ma come “una colpa insanabile, uno stigma antropologico, una diversità di comportamento quasi etnico, un retaggio del passato» che impedisce qualsiasi azione di risanamento e rende inutile ogni sostegno pubblico. In questo modo, il messaggio “terra irrecuperabile”, che diventa “pensiero universale”, deprime lo spirito democratico e fa sbandare le istituzioni, facilitando l’arroganza di politiche separatiste. In questo circo delle idee sbagliate, il crimine e il malaffare non sono più fenomeni contro cui si dispiegano le forze dello Stato per tutelare e proteggere le forze sane della società, come accade in ogni Paese civile; i crimini sono valutati come espressione di una mentalità, un retaggio storico, e al sud viene applicata una riedizione del Lombroso, in versione geografica. Niente di più madornale sarebbe continuare a sottovalutare il peso che questa operazione apparentemente di immagine continua ad avere sul destino dell’intero Paese. Insigni studiosi hanno constatato che quello che risulta drammaticamente vero è che la narrazione sul Sud è stata pilotata da una precisa strategia volta a trasformare la questione meridionale che non si era riusciti a risolvere in un problema antropologico.
Purtroppo i fatti sono ostinati e le ombre su come venne portata avanti l’unificazione (ne danno prova personalità storiche di diverse ispirazioni politiche: Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti, Giuseppe Zanardelli, Pasquale Villari, Giustino Fortunato, e ancora Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Emilio Sereni e Antonio Gramsci), relegando il Sud a un divario economico che la spinta mercatale ha acuito dagli anni ’80 in poi, possono essere negati, per non affrontarli con una legislazione adeguata, ma non possono essere risolti. Una classe dirigente degna di questo nome, dovrebbe essere consapevole di cosa rappresenta e di cosa è utile al Paese fare per salvare la Repubblica dallo sfascio della mancata coesione sociale e della destrutturazione della vita pubblica ed economica. Ciascuno, in uno sforzo collettivo, deve prendere coraggio del proprio ruolo e dare senso a una “rivoluzione” morale in cui riprendere il cammino. Senza toni messianici né finalizzati al trampolino di sé stessi, ma con la normalità necessaria e urgente alla consapevolezza che c’è un futuro da costruire e che non c’è un compito più degno di fare il proprio dovere nel presente.
A rompere l’Italia si fa prima che a ricostruirla? Lasciando da parte la villania dei negazionisti, che fanno il gioco di chi vuole una nazione separata per egemonizzarla meglio, l’occasione della crisi politica e della pandemia possono, paradossalmente, fornire un combinato disposto fecondo alla causa della ricostruzione morale e civile del nostro Paese. Con lo sguardo che la Costituzione ci offre per avere cura della realtà, sul terreno dei diritti, dell’uguaglianza e delle libertà, i soldi a fondo perduto che l’Europa ha reso disponibili per fronteggiare l’urto della pandemia sul piano sanitario ma anche economico e sociale, ci offre l’opportunità di voltare pagina. Chi governa e chi davvero rappresenta l’Italia nelle istituzioni parlamentari, è chiamato ad usare il Recovery Plan e il Mes come una formidabile chance per fare le cose, partendo dalla convergenza dimenticata tra Sud e Nord. Roberto Napoletano, giornalista e scrittore, direttore della testata Il Quotidiano del Sud, lo scorso 28 gennaio ne ha rilanciato l’opportunità immancabile per «invertire le cifre della vergogna italiana che sono quelle della rendita pubblica a favore dei ricchi costruita con i soldi pubblici dovuti ai poveri». «Questa la grande opportunità dell’Italia – spiega Napoletano- perché se non riparte il Mezzogiorno il nord diventa colonia di un altro mondo che è quello franco tedesco e l’Italia sparisce come Paese dalla cartina geografica».
Possiamo riunire le due Italie con i soldi europei? Si. Ma è necessario volerlo. Basta con il mantra, ossessivo e immorale, che il Sud sia terra perduta e irrecuperabile. Con questa solfa il Sud affoga e rischia di perdere il coraggio del proprio ruolo. Siamo per davvero nella stessa barca. I diritti sono collegati a responsabilità collettive. Da soli non ci si salva.
*giornalista

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