REGGIO CALABRIA L’ennesimo terremoto si abbatte sullo Stretto e coinvolge, ancora una volta, la Caronte&Tourist Spa che vede i suoi beni posti in “amministrazione giudiziaria” per sei mesi affinché venga «bonificata dagli interessi mafiosi che negli anni hanno gravitato intorno alla società fino ad infiltrarla nel profondo». Il colosso del trasporto via mare è una “holding” che conta circa 1.500 dipendenti, un volume d’affari di oltre 500 milioni di euro e un capitale sociale di 2.374.319 euro, motivo per il quale la misura ex articolo 34 della normativa antimafia spiccata oggi, sottolinea il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, «è una delle più importanti eseguite in tutta Italia», con l’apporto determinante dalla Direzione investigativa antimafia (Dia).
Del gruppo societario in questione fanno parte – a fronte della fusione risalente al 2003 – la calabrese “Caronte Srl” riconducibile al gruppo Matacena e la siciliana “Tourist Ferry Boat Spa” della famiglia Franza. Detiene inoltre quasi un terzo della proprietà il fondo inglese “Basalt Infrastructure Partners”. Presenza storica intorno agli affari della “Caronte&Tourist” viene acquisita, grazie alla fornitura dei servizi di ristorazione e pulizia, da alcune società tra le quali gli inquirenti segnalano la società cooperativa “Vep Services” e soprattutto la “Caap Service Srl”, acronimo di Campolo-Aquila-Passalacqua, nomi noti anche nelle aule giudiziarie. «Nonostante il sequestro delle quote – spiega la Dia – ha mantenuto l’attività di interlocuzione diretta con la Caronte fino al 2020 quando è stata liquidata con una cospicua somma».
Va specificato fin da subito, come sottolineato a più riprese dal procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che «non si parla di controllo vero e proprio della ‘ndrangheta sulla società, ma di agevolazione degli interessi di soggetti pericolosi» che erano riusciti a infiltrare la Caronte&Tourist attraverso alcune società di servizi. Il provvedimento si collega ad attività di indagine e nomi noti ai processi “Meta”, “Olimpia”, “Sansone” e “Cenide”, per citarne alcuni. Alcuni soggetti implicati risultano inoltre destinatari di condanne per 416-bis pronunciate in via definitiva e riconducibili alle ‘ndrine “Imerti-Condello”. Gli elementi nuovi provengono anche dalle rilevanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vincenzo Cristiano e Giuseppe Liuzzi che «si sono soffermati sui collegamenti tra la società ed alcuni soggetti individuati come strettamente riferibili alle cosche». Su tutti si segnala la figura di Massimo Buda, figlio di Santo Buda, soggetto la cui appartenenza alle cosche di ‘ndrangheta risulta ampiamente accertata in via giudiziaria con la condanna a 14 anni e 6 mesi di carcere nel processo “Sansone” del quale si è da poco concluso il secondo grado. Questi era divenuto un vero e proprio “Mister Wolf”, dicono i magistrati, «in grado di risolvere qualsiasi tipo di problema, dalle liti del piazzale in su». Il nome di Buda risulterebbe riconducibile infatti anche ad aziende «che pur non risultando direttamente collegate alle cosche di ‘ndrangheta, sono riuscite ad inquinare l’attività della Caronte&Tourist penetrandola dall’interno», spiega il direttore della Dia, Maurizio Vallone. Altra figura di rilievo è quella di Domenico Passalacqua, destinatario di una condanna per associazione di stampo mafioso nel processo “Meta” e dipendente della Caronte con rapporto lavoro non interrotto nemmeno durante la sua latitanza. Ma dentro queste vicende ricorrono anche altri nomi noti come quelli di Pasquale Bertuca e Giuseppe Aquila, accusato in “Olimpia” di essere organico alla cosca Rosmini con l’incarico di seguirne le vicende politiche.
La scelta di applicare l’articolo 34 del codice antimafia è presto spiegata. Gli amministratori giudiziari interverranno ora nell’attività della Caronte&Tourist Spa al fine di bonificarla dagli interessi e dai rapporti occulti con le cosche. Al provvedimento si è arrivati stante la constatazione, da parte degli inquirenti, dell’impossibilità di «ripulire la società dalla contaminazione ‘ndranghetista perdurata anche a seguito della fusione» e della nascita del soggetto giuridico odierno esistente. La propensione verso l’amministrazione giudiziaria rispetto al sequestro finalizzato alla confisca si lega alla «terzietà della società rispetto ai sopracitati soggetti ritenuti pericolosi» e per questo motivo destinatari della misura di prevenzione personale, spiega sempre il direttore della Dia. L’attività è stata coordinata dai procuratori aggiunti Giuseppe Lombardo e Gabriele Paci. Quest’ultimo spiega le fasi salienti che hanno portato all’odierna misura scaturita dall’attività d’indagine portata avanti dai pubblici ministeri Stefano Musolino e Walter Ignazitto. «L’odierna misura mette insieme una serie di vicende giudiziarie che in qualche modo hanno determinato la storia di questo distretto e ricostruiscono i rapporti tra le cosche dello Stretto». Vicende nelle quali ricorre spesso il riferimento, più o meno diretto, alle società che hanno gestito e gestiscono l’attività di traghettamento sullo Stretto di Messina. Un’attività redditizia che «ha attirato gli interessi mafiosi – spiega Paci –. Interessi che nel tempo hanno trovato un radicamento attraverso lo sfruttamento delle capacità imprenditoriali di taluni soggetti coinvolti. Anche per questo, il tribunale ha dovuto riconoscere la loro pericolosità sociale, posto che alcuni erano già stati destinatari di condanne ex articolo 416-bis del codice penale». Su tutti, il procuratore aggiunto si sofferma su Massimo Buda che nel tempo, come emerge anche da una intercettazione, «era divenuto il soggetto di riferimento mafioso; considerato il “numero uno” anche in virtù della caratura criminale della famiglia di appartenenza». Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo si sofferma invece sulla misura e sul sistema criminale che si tende a sradicare: «L’odierno provvedimento vede come indagini di riferimento “Breackfast” (procedimento n.7261/2009) a cui fa seguito un successivo procedimento del 2015, n. 2351». Questi interessano il “Gruppo Matacena” (che gestisce la Caronte) o meglio, «la galassia imprenditoriale che si ricostruisce intorno a quella famiglia». Riferimenti dei presunti contatti dei Matacena con soggetti vicini alle cosche sono molto risalenti nel tempo. «Nell’ultimo periodo si è aggiunto il contributo dei collaboratori di giustizia che hanno ricostruito un rapporto di cui si aveva traccia anche in indagini precedenti». L’indagine nuova «oltre a riguardare gli aspetti tipicamente mafiosi, fa comprendere come opera in questo territorio il così detto “indotto mafioso” che non è mafia, ma beneficia delle sue logiche». «Siamo consapevoli – aggiunge Lombardo – che determinate situazioni sono radicate su questo territorio e chiedono l’impiego di tutti gli strumenti a disposizione dell’antimafia. Purtroppo si vive ancora di un simbolismo mafioso dove Passalacqua torna libero e si trova abbracciato da uno dei componenti di spicco della Caronte&Tourist. Questo doveva essere un segnale che una sentenza di condanna definitiva avrebbe dovuto interrompere. Laddove ciò non accada, soccorre il nostro sistema delle misure di prevenzione».
Il Colonnello della Guardia di finanza Massimo Chiappetta spiega inoltre come l’operazione riguardi da vicino «le dinamiche operative di alcuni contesti aziendali». Ne esce «un’immagine nuova della ‘ndrangheta, che non è più quella che si rappresenta con la sua forza intimidatrice, ma che attraverso i suoi servizi diventa sempre più imprenditrice». Viene rimarcato il punto su un nuovo “modus operandi” dell’organizzazione organizzazione criminale che sfrutta il suo “know how” legato anche alla storia di determinati cognomi. Come accennato, oltre all’amministrazione giudiziaria dei beni della Caronte&Tourist, vanno segnalate le misure di prevenzione reale che hanno come “proposto” Massimo Buda e la moglie, Sonia Versace. «Molti dei loro accreditamenti sono tracciabili perché stipendiali. Pur considerando lecite determinate entrate, si evidenzia una netta sproporzione tra quelle che sono le manifestazioni reddituali e gli investimenti posti in essere nell’acquisto di fabbricati e terreni, frutto di investimento di proventi illeciti». A Buda sono quindi stati sequestrati beni per circa 800mila euro. Oltre a diverse disponibilità finanziarie, la Dia ha applicato i sigilli a due ditte individuali, 5 appezzamenti di terreno di cui uno edificabile, 2 appartamenti e un garage a Villa San Giovanni, un appartamento con box e piccolo vano cantinato nel Comune di Lissone in provincia di Milano. (redazione@corrierecal.it)
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