Non è facile capire le ragioni della crisi di governo. Non è facile capirne il nascere né il suo dipanarsi. Più facile è capirne la conclusione, e, alla luce della conclusione, riavvolgere il nastro e tentare una spiegazione, che vale tanto nell’ipotesi in cui la crisi porti alla formazione del governo Draghi – come, al momento in cui scriviamo, è assolutamente probabile, per non dire certo – quanto nell’ipotesi che si venga alle elezioni.
Si tratta di una spiegazione che attraversa sì la psicologia dei personaggi della nostra politica, ma che affonda pure in ragioni ben più complesse e profonde. Ma all’opinione pubblica la crisi certo è parsa e pare “incomprensibile” in un momento in cui il Paese è chiamato a gestire il Recovery Fund, l’emergenza sanitaria, la crisi economico-sociale.
Benché officiata da Renzi, da Renzi è stata travolta l’alleanza di governo che ha condotto alla formazione del governo Conte-bis. L’iniziativa di Renzi ha certamente a che fare con la psicologia del personaggio, che ama stare al centro della scena. Se non vi riesce, è capacissimo di far saltare il banco. E l’abbiamo visto. Il governo Conte ne appannava la figura, sebbene fosse decisiva la formazione di Italia viva per le sorti del gabinetto, cui vi partecipava con due ministri e un sottosegretario.
Decisiva per il governo, la formazione di Italia viva, stando ai sondaggi e alle proiezioni elettorali, risulta tuttavia poca cosa, gravitando intorno al 2 per cento. Il Pd e i 5Stelle, pur tra difficoltà e vischiosità interne, lasciavano invece prefigurare convergenze, anche future. Di tali convergenze Conte appariva un possibile collante, e, dal canto suo, il premier teneva, intanto, la barra dritta su un’iniziativa di governo che, pur nell’emergenza sanitaria, a non pochi osservatori è parsa troppo accentratrice. Accentratrice non solo per l’uso massiccio dei dpcm, ma per la tendenza a ricondurre per molti versi l’azione di governo nell’alveo della Presidenza del Consiglio (non è un caso se gli è stata rimproverata la delega ai servizi segreti e una certa disinvoltura nei confronti del Parlamento nella gestione dell’emergenza sanitaria, condotta anche attraverso lo strumento del commissariamento). Ma a destare preoccupazione, dopo che con grande enfasi e con scarsissimo risultato sono stati convocati nel giugno del 2020 gli Stati generali per tracciare le linee di intervento economico diretto al rilancio del Paese a seguito della crisi causata dalla pandemia, è stata la proposta di Conte di costituire una cabina di regia per la programmazione e la gestione del Recovery Fund. Un organismo elefantiaco, la cui regia si immaginava affidata alla Presidenza del Consiglio, al Mef, al Mise e a sei manager, posti a capo di sei macro-area, incaricati di coordinare un gruppo di ben 300 esperti. Era in ballo pure la figura di un supercommissario, prefigurato come organo di raccordo tra il livello politico e quello manageriale. Forti, e subito, si sono levate le critiche, soprattutto da parte di Renzi che nella proposta del premier ha visto il rischio concreto di esautorare le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato e di commissariare la politica. Attenzione: gli appetiti intorno al fiume di denari del Recovery Fund non sono pochi.
Intanto nell’aria, dopo la fine del suo mandato alla Bce, la figura di Mario Draghi sempre aleggiava sulla scena politica a tormentare il sonno di Conte.
E qui viene la psicologia del personaggio di Renzi, che però incrocia una complessa e profonda ramificazione di interessi. L’iniziativa di staccare la spina al governo Conte gli offre l’opportunità di occupare il centro della scena politica, come in effetti è accaduto. Nel corso delle consultazioni e delle trattative per la formazione del nuovo esecutivo, il senatore di Rignano ha spinto e ha rilanciato, ma non tanto da portare alle elezioni, ben sapendo che una tale prospettiva non conviene a nessuno, se non allo schieramento di centrodestra. Alzando la posta, Renzi ha chiuso le porte al Conte-ter e spalancato quelle di un governo istituzionale, facendo così materializzare il fantasma di Mario Draghi, che ha, pertanto, finito di aleggiare sullo scenario politico.
Renzi, come si dice volgarmente, si è fatto “due conti”: i) se fosse rimasto accomodato nel governo Conte-bis, non avrebbe avuto visibilità e sarebbe rimasto schiacciato nella morsa dell’alleanza Pd-5Stelle; ii) se avesse portato la crisi di governo fino alle elezioni, ne sarebbe rimasto travolto; iii) se avesse facilitato (meglio: provocato), come sta avvenendo, la nascita di un governo Draghi, avrebbe addirittura potuto rivendicare meriti. Gestire 209 miliardi di euro, nel corso di una pandemia e di una crisi economico-sociale, è cosa da far tremare le vene e i polsi. Ed è cosa che gli ambienti economico-finanziari vogliono certamente affidare a mani di sicura levatura e di riconosciuto standing internazionale. Draghi, figura di indiscussa competenza, è l’uomo giusto per programmare la gestione del Recovery Fund e tranquillizzare le cancellerie europee. Il Recovery Fund rappresenta la prima esperienza di mutualizzazione del debito europeo, che potrà cambiare il volto non solo del nostro Paese, che ne è il maggiore beneficiario, ma dell’intera Europa. Dopo che la cancelliera Merkel sarà uscita di scena, l’Europa ha bisogno di uomini come Draghi per affrontare le sfide che si preparano.
Una volta programmata, come si deve, la gestione del Recovery Fund, Draghi avrà, quindi, il tempo di salire al Quirinale come Presidente della Repubblica per seguirne l’evoluzione dal Colle più alto di Roma. E, intanto, Renzi sarà andato all’incasso, proclamandosi salvatore della Patria.
*docente Università Mediterranea
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