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La visione di Draghi spiegata ai giovani calabresi

Nel 2007, l’attuale premier incaricato tenne una lezione a Camigliatello. «Istruzione e innovazione essenziali per la crescita»

Pubblicato il: 09/02/2021 – 10:10
La visione di Draghi spiegata ai giovani calabresi

Mario Draghi, nel 2007, tenne una lezione a Torre Camigliati, nella Sila cosentina, al corso di orientamento della Normale. L’intervento del premier incaricato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ripropone temi che l’ex governatore della Banca centrale europea non ha mancato di rilanciare anche oggi. Questioni fondanti, come il ruolo dell’istruzione e dell’innovazione per la crescita economica, che Draghi poneva all’attenzione dei giovani calabresi, in Calabria. Vi riproponiamo quel documento, dal titolo “Dalla ricerca all’innovazione per la crescita economica”.

Innovazione e crescita economica

Gli studi sulla crescita economica hanno da sempre posto l’accento sul progresso tecnico quale motore dello sviluppo. La capacità innovativa di un paese si traduce in beni, servizi, organizzazione del processo produttivo di qualità sempre più alta. Sono le innovazioni di prodotto e di processo a sostenere la crescita di lungo periodo, aumentando la produttività complessiva del sistema. Per i paesi che già utilizzano l’insieme di tecniche di produzione più efficienti dal punto di vista economico, il miglioramento e il superamento di queste tecniche è il fattore determinante per la crescita. Per gli altri, lontani da questa “frontiera tecnologica”, il progresso deriva in larga misura dall’imitazione, meno dall’attività di ricerca e sviluppo. La prolungata fase di espansione economica avviatasi in Europa dal secondo dopoguerra è stata costruita sulla diffusione di tecnologie mature e consolidate che potevano beneficiare di economie di scala. La crescita avveniva prevalentemente attraverso la ricostituzione dello stock di capitale fisico perduto nel corso della guerra con l’adozione delle tecnologie esistenti; non richiedeva un’alta quota di lavoro qualificato. In Italia, in particolare, l’ammodernamento delle condizioni produttive passò attraverso l’adozione dei metodi di produzione e di gestione manageriale americani in molti settori chiave dell’industria (siderurgia, elettricità, petrolchimica, alcuni comparti della meccanica). Parimenti, molti paesi che oggi definiamo in via di sviluppo, “rincorrono” i paesi più avanzati, importandone le tecnologie e adottando le innovazioni da questi prodotte. Grazie ai processi di imitazione essi mostrano spesso tassi di crescita superiori a quelli dei paesi leader, anche quando sono bassi i livelli di spesa in ricerca e di capitale umano. Storicamente a questo modello di sviluppo si associano la protezione delle produzioni nazionali, il forte impegno pubblico nei settori ritenuti strategici, verso i quali vengono canalizzati i flussi di risparmio, la regolamentazione dei mercati volta alla crescita delle imprese esistenti. Sono, queste, politiche coerenti con il raggiungimento di un obiettivo ben definito, rappresentato dagli standard fissati dai paesi leader. Questa opzione non è aperta ai paesi più avanzati, come sono oggi gli Stati Uniti, il Giappone o l’Europa. Il loro progresso deriva necessariamente dall’avanzamento delle tecniche, attraverso l’ideazione di nuovi e migliori prodotti e l’introduzione di tecnologie e modi di organizzazione originali. Con l’aumento del reddito pro capite, muta la composizione della spesa degli individui, dai prodotti di massa a prodotti differenziati con un elevato contenuto di servizi. La produzione è più orientata alla qualità che alla quantità. Come risultato, anche a causa della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la crescita di lungo periodo si sostiene con un elevato tasso di innovazione, che si alimenta e si realizza mediante un meccanismo di selezione e di “distruzione creatrice” delle iniziative imprenditoriali. L’ingresso di imprese portatrici di nuove idee, prodotti, tecniche di produzione o modelli organizzativi spinge fuori dal mercato quelle incapaci di rinnovarsi e tenere il passo. La chiave del progresso economico è perciò garantire che gli innovatori possano svolgere il loro ruolo e che non siano esclusi dal sistema produttivo. Le nuove imprese contribuiscono a spostare in avanti la frontiera tecnologica sia direttamente, attraverso le innovazioni che esse realizzano, sia indirettamente, attraverso la pressione che esercitano sulle imprese esistenti a migliorare l’efficienza nella produzione e l’organizzazione dell’attività produttiva. Il processo di avanzamento tecnologico è quindi intrinsecamente conflittuale, guidato dall’esigenza delle imprese di appropriarsi quanto più a lungo possibile delle rendite create dall’innovazione. Paolo Sylos Labini scriveva nel 1957: “vi sono … alcune innovazioni che per la loro stessa natura non sono accessibili che a determinati tipi d’imprese e particolarmente alle imprese più grandi. Sono, fra queste, molti metodi di ‘produzione di massa’, la cui applicazione è possibile solo se le imprese hanno raggiunto dimensioni molto ampie. Ma le imprese possono avvalersi di mezzi speciali – non necessariamente connessi con le discontinuità tecnologiche – per rendere inaccessibili o meno accessibili ai rivali determinate innovazioni e quindi per non dover spartire con essi i benefici che da quelle innovazioni derivano: i brevetti che proteggono nuovi metodi produttivi e i marchi di fabbrica, che impediscono l’imitazione di determinate caratteristiche qualitative dei prodotti, costituiscono gli esempi più ovvi di tali mezzi”.
Vi è perciò una complessa relazione tra forma di mercato e capacità di innovazione. In mercati monopolistici, le imprese raggiungono una dimensione che permette di sfruttare al meglio le economie di scala e di disporre internamente delle risorse da destinare alla ricerca e sviluppo. La possibilità di appropriarsi dei frutti della propria inventiva è un importante fattore di stimolo dell’innovazione. D’altra parte, l’inerzia organizzativa e il costo di modificare la tecnologia in uso può ridimensionare l’incentivo del monopolista a ricercare nuove tecniche o prodotti. È qui che il pungolo della concorrenza diventa cruciale. Se pure essa riduce la capacità di appropriarsi degli extra-profitti, al contempo penalizza le imprese che non innovano e alla lunga le costringe a uscire dal mercato. In un contesto aperto e competitivo, la continua ricerca del perfezionamento tecnologico e della differenziazione del prodotto costituisce la via per difendere le posizioni acquisite. Per il consumatore questo può tradursi in prezzi più bassi, in migliore qualità e in una più vasta gamma di prodotti a disposizione.

Un contesto favorevole all’innovazione

La capacità innovativa è un fenomeno complesso. Coinvolge molti soggetti e istituzioni. È il frutto dell’intelligenza umana, dell’applicazione e del caso, delle risorse che in più modi si destinano alla ricerca. Sfugge a una semplice misurazione. Non v’è dubbio che la spesa in ricerca e sviluppo sia un input decisivo. Ma non è il solo fattore che conta. L’analisi economica indica una correlazione significativa tra gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e la dinamica del prodotto e della produttività, ma non mancano rilevanti differenze tra paesi. Nella media del periodo 1995-2005, per esempio, in Giappone la spesa complessiva in R&S è stata più elevata, in rapporto al PIL, che negli Stati Uniti (rispettivamente, 3,0 e 2,6 per cento), ma il tasso di crescita del prodotto pro capite è stato meno della metà di quello nordamericano (1,0 contro 2,1 per cento). Anche in Germania la crescita economica è stata assai più contenuta (1,2 per cento) che negli Stati Uniti, nonostante un ammontare di investimenti in R&S appena inferiore (2,4 per cento del PIL). È l’intero assetto istituzionale che concorre a trasformare le risorse impiegate nella ricerca in innovazione, aumento della produttività e, da ultimo, maggiore benessere. Un ruolo cruciale è svolto dalle politiche per la concorrenza, per il credito e per l’istruzione. Il progresso tecnologico in un’economia avanzata si accompagna con un elevato turnover delle imprese e dei lavoratori, per l’entrata di operatori con nuovi prodotti e l’uscita delle produzioni qualitativamente inferiori. È necessario ridurre al minimo i costi di accesso, siano essi determinati da esplicite barriere che ostacolano potenziali entranti o dal controllo improprio del mercato da parte delle imprese esistenti. La “distruzione creatrice” comporta costi sociali; perché la riallocazione del lavoro tra imprese e settori sia possibile, occorre un moderno sistema di protezione sociale. L’attività innovativa presenta esiti estremamente incerti. Le nuove idee devono trovare un adeguato sostegno finanziario, un mercato dei capitali capace di scommettere sui progetti più promettenti nel medio-lungo termine, ad alto rischio e rendimento, spesso non coperti da garanzie patrimoniali. Negli Stati Uniti le imprese finanziate dai venture capitalists sono più innovative di quelle che pure operano negli stessi settori ad alta tecnologia. Avendo natura di investimento di lungo periodo, l’innovazione è favorita da politiche macroeconomiche che perseguono la stabilità. Il ruolo di regolatore dei mercati dell’operatore pubblico può, tuttavia, essere insufficiente se il tasso di innovazione è inferiore a quello che massimizza il benessere sociale. Questo è in genere il caso degli investimenti in ricerca e sviluppo, i cui rendimenti complessivi sono superiori a quelli privati. L’individuazione da parte dei soggetti pubblici dei comparti e delle imprese del settore privato cui destinare i sussidi all’innovazione è una politica che perde di efficacia man mano che un paese si avvicina alla frontiera tecnologica. La natura gerarchica e burocratica del processo di formazione delle decisioni pubbliche mal si adatta a guidare un processo innovativo quando la direzione è incerta e gli esiti imprevedibili. Sono politiche orizzontali e non selettive lo strumento migliore quando il mercato non produce abbastanza ricerca. Il compito fondamentale che l’operatore pubblico è chiamato ad assolvere è tuttavia la formazione delle conoscenze dei propri cittadini. In ultima analisi, la capacità di innovare dipende in modo cruciale dalla disponibilità e qualità del capitale umano, dalla formazione di lavoratori, ricercatori e scienziati.

Il ruolo dell’istruzione

Non rappresenta certo una novità affermare che esiste un legame stretto tra istruzione e innovazione. In uno scritto del 1969, Carlo M. Cipolla – che proprio alla Scuola Normale Superiore di Pisa ha chiuso la sua lunga carriera accademica, dopo i molti anni trascorsi all’Università di California a Berkeley – osservava come a metà del secolo diciannovesimo il grado di alfabetizzazione della popolazione in Prussia e Svezia fosse maggiore che in paesi di più antica industrializzazione come Inghilterra e Galles. C’era in quei due paesi una riserva di gente istruita: “Questa riserva – scriveva Cipolla – era il frutto di un’idea essenzialmente etica. Ma quest’idea ebbe conseguenze incalcolabili nel campo economico. Essa creò l’humus intellettuale e culturale su cui fiorirono un gran numero di innovazioni meccaniche ed organizzative. … [I] paesi più istruiti furono anche quelli che per primi importarono la Rivoluzione industriale: il fatto era che un’istruzione diffusa significava non solo un’offerta elastica di lavoratori istruiti, ma anche una concezione più razionale della vita e quindi un atteggiamento più ricettivo rispetto alle innovazioni da parte della popolazione”.
Ciò che è mutato nell’attuale paradigma tecnologico è il livello e la qualità delle conoscenze richieste. Il capitale umano assume i tratti di un corpo di saperi e abilità altamente codificato e formalizzato. Viene formato e trasmesso attraverso un sistema organizzato di addestramento tecnico e scientifico, che trova il suo perno nelle scuole e nelle università. Sono, queste, istituzioni fondamentali per la crescita di un paese. In un’economia che compete sulla continua produzione di innovazioni, le università sono particolarmente importanti per l’avanzamento della conoscenza, sia come centri di produzione di ricerca scientifica organizzata, sia come sedi di formazione dei nuovi ricercatori. L’istruzione universitaria e post-universitaria risponde alla crescente domanda di lavoratori dotati di competenze linguistiche, tecniche e scientifiche adeguate al livello di sviluppo tecnologico esistente. Sotto questo profilo, esse andrebbero sottoposte a meccanismi di incentivo analoghi a quelli degli altri produttori di innovazione. I fondi pubblici per una parte dovrebbero finanziare gli studenti meritevoli, il resto andrebbe ripartito tra le università in funzione dei risultati conseguiti, misurati tramite rigorosi processi di valutazione. I ricercatori dovrebbero essere selezionati nel mercato globale. Le università sono tuttavia solo l’ultimo stadio del percorso di formazione dello stock di capitale umano di un paese, i cui fondamenti risiedono nella scuola, fin da quella primaria. Scuole di qualità servono non solo a scoprire e valorizzare le intelligenze più brillanti, i potenziali innovatori di domani, ma anche a innalzare gli apprendimenti di tutti i ragazzi. Entrambe queste funzioni sono essenziali nell’economia della conoscenza. Garantire a tutti un’istruzione di qualità favorisce la consapevolezza dei cittadini del loro ruolo e ne aumenta la capacità di produrre ricchezza e benessere per se stessi e per gli altri. Affina la loro attitudine ad accettare e recepire le innovazioni, anche nella sfera della produzione dei beni e dei servizi, come rilevava Cipolla. Nella competizione economica globale, la capacità di adattarsi prontamente al nuovo è forse la caratteristica più importante per il successo. La qualità della scuola, anche quella primaria, è particolarmente importante per i ragazzi e le ragazze la cui origine sociale non favorisce il pieno sviluppo delle loro potenzialità. A questo va aggiunto che i primi anni di vita, fino all’adolescenza, sono fondamentali nella formazione delle abilità cognitive, quelle più legate al talento. È quindi già sui banchi delle scuole elementari che occorre riconoscere e coltivare le eccellenze per evitare una loro dispersione e alimentare le università con una leva ampia e qualificata di studenti.

Il ritardo italiano

In questo mutato contesto, l’Italia segna un particolare ritardo, anche rispetto agli altri paesi europei. È un ritardo che riguarda tutti i fattori che favoriscono l’innovazione su cui ho concentrato la mia attenzione. È bassa la spesa pubblica e privata in R&S; le domande di brevetto depositate presso lo European Patent Office erano appena 6 per centomila abitanti, contro 12 in Francia e 26 in Germania nel 2000. Il divario nel confronto con gli altri paesi avanzati nei livelli di scolarizzazione è ampio, particolarmente nell’istruzione universitaria dove solo il 15 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto al 31 per cento nella media dei paesi industrializzati. La concorrenza, cresciuta con il mercato europeo, stenta ancora ad affermarsi. Secondo i dati dell’OCSE, la regolamentazione anticoncorrenziale dei mercati dei prodotti in Italia è superiore alla media dei paesi sviluppati. Il commercio e l’intermediazione finanziaria, settori in cui le tecnologie dell’informazione hanno indotto, negli Stati Uniti e in parte nell’Unione Europea, mutamenti radicali del processo produttivo e generato uno straordinario sviluppo, hanno registrato una crescita pressoché nulla in Italia. Le operazioni di venture capital verso imprese giovani, nelle fasi iniziali di attività, e verso quelle dei settori ad alta tecnologia ricoprono ancora da noi un ruolo modesto. Secondo dati recenti, la quota italiana sul totale degli investimenti effettuati in Europa verso imprese nelle prime fasi di sviluppo è stata nell’ultimo biennio inferiore all’1 per cento, contro il 9 della Germania e il 14 della Francia. Alla diffusione contenuta del venture capital in Italia contribuiscono la scarsa presenza di investitori istituzionali, quali i fondi pensione, che sono particolarmente adatti a sostenere progetti con un orizzonte di medio-lungo termine, e il minore sviluppo dei mercati azionari, che rende meno agevole il disinvestimento. In prospettiva, lo sviluppo di strutture organizzative che servano da collante tra ricerca e imprenditoria è un fattore che può rilanciare il finanziamento dell’innovazione. Il quadro italiano è critico, ma la situazione non è immodificabile. Vi sono segni che la trasformazione del nostro sistema produttivo è iniziata. Si è accresciuta nelle imprese italiane l’importanza degli investimenti in progettazione, design, marchi, reti distributive e di assistenza. Fra le imprese medio-grandi si sono diffuse nuove tecnologie di gestione aziendale integrata. È aumentato il ricorso a personale con livelli di istruzione più elevati. È proseguito il processo di internazionalizzazione. Sono segnali positivi, anche se la strada da percorrere è ancora lunga.

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