CROTONE L’indagine “Golgota” che ha portato stamane all’arresto di 36 persone legate alle cosche Arena e Nicoscia di Isola Capo Rizzuto e Mannolo di San Leonardo di Cutro, nasce in seguito all’attività investigativa dell’inchiesta “Tisifone” che a dicembre 2019 portò all’arresto di 23 persone legate alle consorterie di Isola Capo Rizzuto e Petilia Policastro.
Con i vertici della cosca Arena in carcere, Antonio Nicoscia, classe ’77, figlio di Pasquale Nicoscia detto “Macchietta”, e Salvatore Capicchiano, subito dopo la loro scarcerazione, si sono attivati per riprendere il controllo del territorio, entrando in conflitto tra loro.
Per rimpolpare le file della mala crotonese sono stati fatti anche dei “battezzi”, riti di affiliazione per Santo Claudio Papaleo, Antonio Nicoscia, classe ’87, e Francesco Macrillò, avvenuti il 26 maggio 2018. Il rito di affiliazione è stato presieduto, da Rosario Curcio, pregiudicato, classe ’60, e si è concluso con un pranzo a base di pesce. Papaleo portava in copiata i vertici delle cosche isolitane e cutresi, tutti detenuti, che si facevano garanti della sua appartenenza alla cosca: Giuseppe Arena detto “Pino Tropeano”, Franco Gentile, Paolo Lentini detto “Pistola”, Ernesto Grande Aracri e Domenico Nicoscia. Qualche mese dopo, a settembre, Papaleo riceve la dote di camorrista mentre viene affiliato, su disposizione di Antonio Nicoscia, classe ’77, Gianfranco Calabretta.
Il nuovo assetto criminale così costituito aveva il compito di riprendere il controllo del traffico di droga a Isola Capo Rizzuto, Le Castella e Crotone.
Al vertice della cosca Arena emerge la figura di Salvatore Arena detto “Caporale”, figlio del boss Carmine Arena e nipote del capostipite Nicola Arena. È lui, ad esempio, il punto di riferimento per dirimere le controversie. È lui che ad agosto 2019 indice una riunione per risolvere un litigio tra Domenico Riillo e persone di Cirò legate a Giuseppe Spagnolo detto “u bandito” elemento di vertice della cosca Farao-Marincola.
Uomo di fiducia di Salvatore Arena è Martino Tarasi, rappresentante della cosca nella provincia di Bergamo, il quale si era assunto il compito di provvedere al sostegno della famiglia di Salvatore Cappa, detenuto per l’operazione Aemilia. Tarasi provvedeva alle spese legali e non solo: acquistava immobili a Cutro, di proprietà di Salvatore Cappa, sottoposti a esecuzione immobiliare, per fare in modo che rientrassero in possesso del proprietario originario.
Tra gli elementi di spicco in questa indagine, gli inquirenti indicano anche Antonio Sestito, uomo di fiducia di Tommaso Gentile (esponente di spicco del clan Arena, che ha gestito la bacinella della cosca e svolto compiti di controllo di del territorio e ha gestito anche il traffico di droga), dedito in particolare alle estorsioni, imponeva ai commercianti a quali grossisti affidarsi per l’approvvigionamento di prodotti alimentari.
A sua volta Sestito veniva affiancato da Giovanni Greco e Giuseppe Timpa, attivo nel settore delle estorsioni, nel controllo delle slot machine, effettuando danneggiamenti, impegnandosi anche a intervenire per cancellare tracce di reati e detenendo armi per conto del sodalizio.
Nonostante fosse in carcere, Tommaso Gentile partecipava attivamente alle dinamiche criminali della cosca Arena. In particolare, gli investigatori della Squadra mobile di Crotone hanno registrato dialoghi tra i sodali della cosca nei quali emerge la volontà di Tommaso Gentile di attentare alla vita di Salvatore Capicchiano, esponente dell’omonima cosca. È Giuseppe Gentile, a ottobre 2018, a parlarne con Gianfranco Calabretta il quale riferisce delle minacce che Salvatore Capicchiano, detto “porcedduzzo” avrebbe rivolto ad Antonio Nicoscia, classe ’77. Giuseppe Gentile rimarca i fatto che «l’azione omicidiaria doveva essere già stata portata a termine» e prevedeva che l’uscita dal carcere di Tommaso Gentile «avrebbe portato sicuramente ad uno scontro tra le fazioni». Calabretta è convinto che Salvatore Capicchiano abbia proferito quelle parole in sua presenza perché lui le riferisse a Nicoscia: «Ma l’ha fatto apposta… per riferirglielo… A me ha detto… portamelo qua che le lo scanno… davanti a tutti…».
Nel corso dello scambio di battute Giuseppe Gentile affermava che Tommaso Gentile, una volta uscito dal carcere, avrebbe preteso il ruolo di vertice della cosca, mettendosi in contrapposizione di fatto ed adoperandosi in breve tempo per l’eliminazione fisica di Salvatore Capicchiano. Insomma, Tommaso Gentile voleva il ruolo di comando della cosca e per ottenerlo avrebbe eliminato Capicchiano il quale, a sua volta, aveva inviato minacce ad Antonio Nicoscia.
A sua volta, Salvatore Capicchiano dimostra di essere al corrente dei piani nefasti ai suoi danni sia da parte di Tommaso Gentile che di Pasquale Nicoscia i quali dal carcere facevano trapelare la propria volontà. Non solo. Salvatore Capicchiano è a conoscenza del fatto che la Fiat 500 rinvenuta a febbraio 2018 in un magazzino abbandonato di Isola, con all’interno un fucile semiautomatico calibro 12, fosse destinata per un attentato contro di lui.
In merito a questi propositi omicidiari, gli investigatori annotano: «In ragione dello stato di detenzione di Tommaso Gentile, sì è accertato che questi, nel territorio di Isola di Capo Rizzuto, fosse rappresentato da Antonio Sestito e da Giovanni Greco».
Un altro desiderio di vendetta gli investigatori lo registrano per bocca di Santo Claudio Papaleo il quale aveva avuto un alterco con Giovanni Greco che avrebbe cercato di ridicolizzare Papaleo per la partecipazione al rito di affiliazione. «Ma a questo lo puoi picchiare? a questo lo devi sparare», dice Papaleo parlando con Antonio Gentile classe ’87 il quale gli ricorda che la cosa non si può fare, non tanto per il comportamento scorretto tenuto da Greco, quanto per la pace stipulata tra le fazioni di Isola Capo Rizzuto, a dimostrazione dell’appartenenza di Giovanni Greco al gruppo dei Gentile. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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