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IL RACCONTO DEI PENTITI

Rinascita, gli incontri ai processi per scambiare “imbasciate”

L’attentato al negozio di Artusa e l’intervento veicolato da Luigi Mancuso alle cosche lametine. Oggi in aula è stata la volta dei Giampà

Pubblicato il: 11/02/2021 – 19:50
di Alessia Truzzolillo
Rinascita, gli incontri ai processi per scambiare “imbasciate”

LAMEZIA TERME Domenico Giampà, 40 anni, collabora con la giustizia dal luglio 2016, mentre si trovava al 41bis, «per intraprendere un nuovo percorso di vita e non avere più a che fare col malaffare». Prima era il killer della cosca Giampà, nato e cresciuto in seno alla cosca egemone a Lamezia Terme, fin dagli anni ’80, essendo nipote del capostipite Francesco Giampà, detto “il Professore” (oggi ristretto al 41 bis). Del suo clan di provenienza Domenico Giampà racconta che si sviluppa in ambito familiare e che opera tutt’ora sul territorio lametino.
«Io ho cominciato a fare manovalanza fino a diventare reggente dal 2013 in poi», spiega. Giampà racconta di avere ricevuto le doti di picciotto e camorrista insieme, poi lo sgarro e di essere entrato nella Società Maggiore ricevendo le doti della santa, del vangelo, il quartino, il trequartino, il padrino, la crociata fino al patto, dote quest’ultima che precede il Crimine.
Racconta che nella copiata – gruppo di persone che garantiscono durante i riti di affiliazione – comparivano rappresentanti delle famiglie alleate ai Giampà: uno della ‘ndrangheta di Lamezia, uno di Cutro e uno di Isola Capo Rizzuto.

L’omicidio Franzoni

Domenico Giampà – nel corso del processo Rinascita-Scott contro la ‘ndrangheta vibonese – racconta di avere compiuto diversi omicidi per conto della consorteria. Uno di questi è avvenuto nell’estate del 2002 a Porto Salvo, frazione di Vibo Valentia nel quale venne ucciso Mario Franzoni. L’omicidio venne deciso nella stalla di Andrea Mantella alla presenza di Vincenzo Giampà, Francesco Scrugli, Salvatore Mantella e Nazzareno Mantella. Il collaboratore ricorda che il delitto venne commesso con la complicità di suo cugino Vincenzo il quale guidava lo scooter dal quale Domenico Giampà, seduto dietro, sparò con una calibro 9.
Con Mantella e i suoi sodali, compresi Salvatore e Nazzareno Mantella c’erano rapporti scambi frequenti: «Noi andavamo da loro per le armi e loro venivano da noi per la droga». Non solo. Giampà racconta che dopo l’omicidio Franzoni «Francesco Scrugli, Salvatore Mantella e Nazzareno Mantella dovevano venire da noi a fare altri omicidi».

Rapporti coi Mantella

Mantella, racconta il pentito, «è un nostro parente perché sua sorella ha sposato mio cugino, oggi defunto, Pasquale Giampà. Abbiamo rapporti con Mantella fin dagli anni ’90. Lo conosco come una figura apicale a Vibo, così come figure apicali erano persone come Paolino Lo Bianco, Carmelo Lo Bianco e i Mancuso».
La famiglia Giampà aveva rapporti con diversi elementi della criminalità vibonese. Il collaboratore fa il nome di Pantaleone “Scarpuni” Macuso. In particolare ricorda di una riunione a Nicotera per discutere di alcune estorsioni compiute nel milanese da un componete del clan Giampà.
Il reggente, ora collaboratore di giustizia, Giuseppe Giampà aveva rapporti con un certo Ascone, del quale non ricordo il nome. Mentre – racconta il collaboratore – il capo storico dei Mancuso, Luigi Mancuo, aveva rapporti con il capostipite dei Giampà, “il Professore” fina dagli anni ’80. Di Salvatore Mantella, Giampà racconta che «si è venuto a prendere la droga da noi e quando andavamo noi a prendere le armi lui c’era e una volta ci portò una palazzina a me e mio cugino Vincenzo e ci consegnò una calibro 22 da tiro».

L’intimidazione ad Artusa

Domenico Giampà colloca orientativamente a prima del 2013 l’intimidazione fatta alla famiglia Artusa, commercianti di Vibo nel settore dell’abbigliamento che aveva aperto un negozio anche a Lamezia Terme. In quel periodo i vertici del clan, decimati dalle operazioni antimafia, si trovavano in carcere e «dopo le operazioni era rimasta la marmaglia che aveva toccato anche questo imprenditore che non doveva essere toccato”, racconta Giampà il quale all’epoca si trovava in carcere a Vibo Valentia e ricevette l’imbasciata da parte di Luigi Mancuso, che si trovava ristretto a Milano Opera, di non toccare gli Artusa, vicenda per la quale si attivò subito. Ma come avvenne lo scambio di messaggi tra Luigi Mancuso e Domenico Giampà? Quello che ricorda Giampà, non senza qualche incertezza e ricordo fallace, è che i membri delle varie cosche per scambiarsi i messaggi “ci incontravamo nei vari processi, nelle celle dell’aula d’udienza o, prima dell’udienza, nelle tre cellette dove portano i detenuti prima del processo in aula». La notizia di Artusa era arrivata ad un altro detenuto, Antonio Gualtieri, il quale era detenuto a Catanzaro. «A me lo disse Saverio Giampà durante un processo a Catanzaro e io mi sono adoperato».

L’ex reggente

Fece scalpore, a settembre 2012, la notizia della collaborazione con la giustizia di Giuseppe Giampà, classe 1980, figlio del capobastone Francesco Giampà. «Mi ero macchiato di diversi omicidi e temevo che succedeva qualcosa a qualche mio parente», racconta al pm Andrea Mancuso che lo interroga.
«Gli omicidi li ho compiuti per conto della cosca Giampà – spiega – fondata da mio padre negli anni ’80 nel Lametino. Ho cominciato a 15 anni, intorno al ’95, e nel 2000 ho fatto i primi omicidi. Nel 2011, in carcere, ho ricevuto la dote di padrino».

Il buon ordine

Lamezia Terme non c’è una locale riconosciuta ma le famiglie sono riconosciute dalla ‘ndrangheta calabrese. Per il resto Lamezia doveva dare conto ai Bellocco di  Rosarno. La situazione di Lamezia, in termini ‘ndranghetisti viene definito un “buon ordine”: il locale non è attivo ma le cosche sono riconosciute e hanno legami con altre cosche. I Giampà, spiega il collaboratore, avevano rapporti con i Bellocco: il punto di riferimento era Domenico Bellocco mentre Carmelo Bellocco gli ha fatto da padrino durante un’affiliazione. A Vibo i Giampà avevano rapporti buoni con i Mancuso e con i Cracolici. Rapporti molto stretti esistevano anche sul territorio Crotonese con i Grande Aracri, i Megna, i Nicoscia. Rapporti così stretti da portare i Giampà ad aderire al progetto di Nicolino Grande Aracri, boss di Cutro, di distaccarsi dall’egida di Reggio Calabria e passare alla nuova provincia criminale di Cutro. Ma Lamezia non riuscì nel proprio disegno perché le numerose operazioni antimafia decimarono le consorterie della Piana di Sant’Eufemia.
Giuseppe Giampà racconta che anche i Bonavota di Sant’Onofrio volevo distaccarsi da Reggio. Quegli stessi Bonavota coi quali si era alleato Andrea Mantella dopo essersi reso autonomo dalla sua cosca di riferimento, i Lo Bianco di Vibo Valentia. Secondo il collaboratore gli Anello di Filadelfia, Mantella e i Bonavota erano alleati contro la schiera che faceva riferimento ai Mancuso. «I Mancuso erano la famiglia apice del vibonese, i capi supremi di Vibo Valentia». L’alleanza i Mancuso l’avevano forte coi Piromalli e coi Pesce.

La richiesta di Cracolici

Dopo la morte di Raffaele Cracolici il figlio Domenico si recò dai Giampà per chiedere di un aiuto nella vendetta del padre. Nell’omicidio però era coinvolto anche Andrea Mantella, cognato di Pasquale Giampà e la cosca decise di non dare una mano ai Cracolici. Allo stesso tempo, per evitare che la faida vibonese si inasprisse decisero di non rivelare ad Andrea Mantella di quella “visita” con richiesta di una mano armata. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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