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Greco «il Santo», protettore delle ditte in odore di mafia

Nella sentenza di condanna, l’ex comandante forestale viene descritto come un «facilitatore» del “cartello” legato ai Farao-Marincola

Pubblicato il: 13/02/2021 – 9:00
di Alessia Truzzolillo
Greco «il Santo», protettore delle ditte in odore di mafia

CROTONE Un «facilitatore», «a costante disposizione degli imprenditori in “odor di mafia”». Così viene descritto l’ex comandante della stazione forestale di Cava di Melis, Carmine Greco, dai giudici del Tribunale collegiale di Crotone che lo scorso 9 dicembre lo ha condannato a 13 anni di reclusione per concorso esterno, favoreggiamento, rivelazione di segreto istruttorio e omissione d’atti d’ufficio.
Partendo da una ricostruzione cronologica delle indagini «può senz’altro affermarsi che, sin dal 2011, Carmine Greco – prima quale appartenente al Corpo Forestale dello Stato e poi quale maresciallo dei carabinieri forestali – abbia tenuto rapporti assolutamente non ortodossi e illeciti con diverse imprese boschive – e dunque con i suoi controllati – sostanziatisi in un continuo ausilio alle stesse al fine di evitare controlli della forestale e di coadiuvare gli imprenditori di volta in volta coinvolti, nonché nella rivelazione di imminenti attività di controllo di polizia giudiziaria». Il Tribunale di Crotone – Marco Bilotta presidente, Federica Girardi, Odette Eronia a latere – ha depositato le motivazioni della sentenza relativa alla condanna del maresciallo della forestale. Il maresciallo, è scritto in sentenza, ha favorito un “cartello” di ditte boschive vicine alla potente cosca cirotana dei Farao-Marincola. Le indagini sul comandante della Stazione forestale di Cava di Melis, nella Sila cosentina, sono state eseguite dal Noe dei carabinieri di Catanzaro, guidati dal maggiore Gerardo Lardieri e coordinate dalla Dda di Catanzaro nell’ambito della più vasta inchiesta “Stige”.

Le ditte Tucci e Zampelli 

In termini cronologici, il primo rapporto illecito che salta agli occhi e che rivela il «modus operandi criminale di Greco è senza dubbio quello che l’imputato aveva con gli imprenditori boschivi Tucci e Zampelli», scrivono i giudici. Nella sentenza di abbreviato del processo “Stige” contro la cosca Farao-Marincola gli imprenditori Bruno Tucci e Vincenzo Zampelli sono stati condannati a 3 anni e 8 mesi di reclusione. Secondo i giudici, le intercettazioni hanno permesso di «verificare come il Maresciallo dei Carabinieri abbia in diverse occasioni prestato il proprio ausilio incondizionato al Tucci e allo Zampelli, coadiuvandoli nell’ambito di attività di controllo e di collaudo relative ad appalti boschivi da loro gestiti». Secondo i giudici è esemplare «l’episodio relativo ai mancati collaudi dei lavori effettuati dalla ditta “Il Tronco s.r.l.” nel Comune di Longobucco e che restituisce l’immagine del maresciallo Greco come di un soggetto capace di “aggiustare” le risultanze dei sopralluoghi effettuati al fine di favorire le ditte boschive vicine alla cosca cirotana». L’episodio risale alla fine del 2013. Il mancato collaudo dei tagli boschivi venne denunciato dal Sindaco del Comune di Longobucco. Dall’analisi della documentazione e dalla captazione delle intercettazione è emersa «la mera volontà dell’odierno imputato e di Tedesco Franco (all’epoca dei fatti comandante Stazione Forestale di Rossano, ndr) di effettuare un controllo estremamente rapido, senza conteggio preciso di piante, al precipuo fine di sbrigare la pratica entro la fine dell’anno solare ed evitare problemi personali».

I rapporti con gli imprenditori Gencarelli, Pedace e Federico

All’imprenditore Gencarelli, Greco garantiva l’assenza di controlli. Anche Gencarelli è ritenuto imprenditore vicino a Vincenzo Santoro, detto “il monaco”, collante tra le cosche di Cirò e le imprese della Sila cosentina.
«La vicenda che ha visto protagonista l’imprenditore boschivo Carlo Pedace, poi, costituisce un’ulteriore epifania – scrivono i giudici – della tipologia di condotta tenuta dal Greco con le ditte “in odor di mafia”. Dopo aver saputo di un sopralluogo effettuato da una guardia dell’ex Afor in territorio di competenza della Stazione di Cava di Melis, infatti, l’imputato si premurava di contattare proprio l’imprenditore boschivo titolare del taglio controllato e di avvisarlo di quanto stava accadendo per permettergli di sistemare la zona prima di un sopralluogo più approfondito».
Il maresciallo, si legge nella sentenza, si è anche impegnato nel “proteggere” l’imprenditore Eugenio Federico che aveva ricevuto una sanzione dal maresciallo di un’altra Stazione forestale. In un primo momento aveva tentato di convincere il collega a non elevare la sanzione per gli illeciti commessi da Federico. Non essendovi riuscito, avendo ricevuto una risposta negativa dal collega, Carmine Greco «si era addirittura occupato di redigere il ricorso contro il verbale amministrativo a carico di Eugenio Federico».

Greco, il “Santo” degli Spadafora

«All’apice dei comportamenti appena enucleati – scrive il collegio –, tutti sempre e solo volti a favorire nei modi più disparati le ditte appartenenti al “cartello cirotano”, si colloca poi quello con i membri della famiglia Spadafora e, in particolare, con Antonio e Rosario Spadafora».
Qui c’è da fare una breve premessa. Antonio Spadafora, così come gli altri familiari inseriti nella ditta di taglio boschivo, è stato arrestato per associazione mafiosa il 9 gennaio 2018, nel corso dell’operazione “Stige”.
Subito dopo l’arresto degli Spadafora avviene ciò che il pubblico ministero Paolo Sirleo ha descritto come “richiesta di aiuto processuale” da parte di Antonio Spadafora a Carmine Greco. Durante un colloquio in carcere con la moglie e la madre, Antonio Spadafora esortava «caldamente le donne a rivolgersi al Greco per ottenere una soluzione al guaio in cui si era cacciato e, nel fare ciò, definiva l’imputato “il Santo”, sosteneva che recandosi alla Stazione di Cava di Melis avrebbero ottenuto “ la grazia” e, infine, definiva Greco come “uno dei suoi”». «Ecco che emerge chiaramente il ruolo di “facilitatore” dell’imputato nel mantenimento dell’egemonia mafiosa sul territorio dell’altopiano silano», è il commento del Tribunale. Qualche mese più tardi, il 27 aprile 2018, viene arrestata la dirigente dell’ente regionale Calabria Verde, Antonella Caruso, accusata di avere costretto l’imprenditore boschivo, Antonio Spadafora, a consegnarle 20mila euro per ottenere un importante appalto per un’attività di disboscamento nel territorio di Castrovillari. A condurre le indagini, coordinate dalla Procura di Castrovillari, fu il maresciallo Carmine Greco. La difesa ha puntato a dimostrare che i contatti tra gli Spadafora e il maresciallo erano sempre e solo stati legati all’indagine sulla Caruso e al ruolo di confidente di Antonio Spadafora. Ma il collegio giudicante non abbraccia questa tesi. Al contrario. In sentenza è messo nero su bianco che «il dibattimento ha messo in luce altre situazioni nelle quali Greco ha senza dubbio tenuto condotte volte a favorire gli Spadafora e a tenerli indenni da prossimi controlli a loro carico». Quanto ai rapporti tra l’imputato e Antonio Spadafora legati all’indagine a carico della Caruso «si comprende come le informazioni fomite da Antonio Spadafora all’imputato (Greco, ndr) non costituissero altro che una parte del corrispettivo da lui riconosciuto a Greco in cambio dell’ausilio di quest’ultimo nel mantenimento dell’egemonia territoriale sulla gestione degli appalti boschivi».

La protezione e le soffiate

«Quello che è emerso nell’ambito del presente procedimento, infatti, è che tra Carmine Greco e gli Spadafora esisteva un accordo implicito sulla base del quale da un lato l’imputato si impegnava a tenere indenni da controlli della Forestale le ditte degli Spadafora, e dall’altro gli imprenditori boschivi si impegnavano a fornire “soffiate” al Maresciallo circa eventuali irregolarità di taglio poste in essere da ditte non appartenenti al “cartello cirotano”: il tutto al precipuo e chiaro fine di permettere alla cosca Farao-Marincola di mantenere l’egemonia e il controllo indisturbato della gestione della “cosa boschiva” nell’altopiano silano», sentenziano i giudici. Un esempio lampante della protezione che Greco forniva agli Spadafora è quanto avvenuto ad agosto 2017 in località Macchia di Pietro del Comune di Casali del Manco dove erano state tagliate 15mila piante di alto fusto in una zona di pregio in quanto rientrante nei confini del Parco Nazionale della Sila. Sul luogo non c’erano uomini ma due mezzi contrassegnati dalla dicitura Fratelli Spadafora.
A settembre era stato disposto un controllo per verificare se se gli autori del taglio fossero dipendenti delle imprese dei fratelli Spadafora. Greco si era detto disponibile a partire alle 13, salvo temporeggiare fino a consentire la partenza della colonna di personale di polizia giudiziaria solamente per le ore 15.00 la quale raggiungeva l’obiettivo alle successive ore 16.00 senza che i militari potessero individuare gli autori del taglio illecito. Quello stesso giorno Greco aveva avvisato telefonicamente Rosario Spadafora alle 10 del mattino.

Secondo i giudici, Greco «avendo lavorato dal 1997 al 2018 come appartenente al Corpo Forestale dello Stato prima e come Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri Forestali poi, conosceva perfettamente le modalità operative del mercato dei boschi e, soprattutto, conosceva perfettamente gli interessi illeciti sottesi a quel preciso ambito di attività economiche, così come si evince anche dal suo coinvolgimento nella richiesta di acquisizione documentale formulata dalla Dda di Catanzaro a carico del Tucci e dello Zampelli nel 2013». In conclusione, sostiene il Tribunale di Crotone, anche se Carmine Greco non era affiliato all’associazione mafiosa «era consapevole dei metodi e dei fini della stessa, rendendosi conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno nella conservazione e rafforzamento della struttura organizzativa, all’interno della quale i membri effettivi potevano contare sul suo apporto vantaggioso». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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