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«Il governo Draghi: tecnico o politico?»

È certamente un governo istituzionale, quello di Mario Draghi. Un governo “del Presidente” perché dal Presidente è stato voluto all’esito di consultazioni che non hanno portato al Conte-ter, la di…

Pubblicato il: 13/02/2021 – 23:09
di Antonino Mazza Laboccetta*
«Il governo Draghi: tecnico o politico?»

È certamente un governo istituzionale, quello di Mario Draghi. Un governo “del Presidente” perché dal Presidente è stato voluto all’esito di consultazioni che non hanno portato al Conte-ter, la direzione cioè nella quale spingevano il Pd, i 5Stelle e Leu nella prospettiva di saldare rapporti di più largo respiro e di maggiore coesione programmatica. Ma è anche un governo “inevitabilmente” politico. Inevitabilmente perché una così larga maggioranza, raccoltasi come d’incanto intorno alla figura di Mario Draghi, non può essere tenuta insieme se non attraverso abili innesti raccolti nel campo dei partiti e dosati secondo il miglior Cencelli. Certo non tutto è perfetto, ed è pure comprensibile, considerata l’estensione del perimetro di governo. Ma, al netto dell’ossequio che si deve agli equilibri della politica e ovviamente alle regole della democrazia e alle procedure parlamentari, il Presidente incaricato ha però messo al sicuro il percorso che di qui in avanti dovrà portare al nostro Paese i denari del Recovery Fund. E, in questa prospettiva, non è un caso se Daniele Franco è stato incaricato di guidare il Ministero dell’economia e delle finanze. È un uomo di cui Draghi ha la massima fiducia, avendo lavorato con lui all’epoca in cui era Governatore della Banca d’Italia (2005-2011). Un uomo formatosi nel Servizio studi di Bankitalia, che è una fucina di competenze. A questo aggiunge la prestigiosissima esperienza di Ragioniere generale dello Stato (2013-2018), che gli consente di muoversi nel complesso mondo dei conti pubblici con la competenza necessaria ad un Paese che si trova ad affrontare l’impennata del già elevatissimo debito pubblico. E, poi, ancora Direttore generale della Banca d’Italia. Insomma, la Banca d’Italia è una riserva della Repubblica fin dall’epoca di Luigi Einaudi. Un dato di non scarso rilievo nel quadro più generale della formazione della classe dirigente del nostro Paese. 

È un governo politico anche perché Draghi è un tecnico impastato di politica, che nella sua lunga esperienza di grand commis ha attraversato diverse ere. Direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001 in un momento in cui si scatena sul nostro Paese una tempesta politica, finanziaria e valutaria (tutti ricordano la drammatica svalutazione del 1992, necessaria per salvare il Paese). Ha seguito con Guido Carli il negoziato che ha portato alla firma del Trattato di Maastricht e con Carlo Azeglio Ciampi l’ingresso nell’euro. Ha seguito il processo di privatizzazione dell’economia negli anni ’90 del secolo scorso. E l’ha concepito non solo come un percorso per ridurre il deficit di bilancio e favorire il consolidamento fiscale, in ossequio ai vincoli europei, ma come una straordinaria “decisione politica” destinata a ridisegnare il confine tra pubblico e privato, tra Stato e mercato e ad incentivare le riforme strutturali del sistema economico e finanziario, necessarie a rendere moderno il nostro Paese. Da Presidente della BCE è riuscito a far “ingoiare” ai tedeschi l’ormai leggendario “whatever it takes” pronunciato nel 2012, in un momento cioè in cui l’Europa attraversava una crisi economico-finanziaria che, colpendo l’euro, ne minacciava la stessa sopravvivenza. Le parole di un banchiere centrale, per gli effetti e le reazioni che scatenano sui mercati, prima si contano e si pesano, e poi si dicono. Ben sapendo che la comunicazione è fondamentale per gestire le aspettative degli investitori, Draghi le ha contate e le ha pesate, quelle parole. E, dopo averle dette indicando così la direzione di marcia, ha avviato un massiccio pacchetto di misure, tra cui il quantitative easing, che negli anni ha sostenuto il mercato dei titoli pubblici europei, calmierato lo spread e contribuito a finanziare le politiche di investimento, salvando così l’euro anche dall’euroscetticismo montante. Non era affatto facile per il banchiere Draghi far digerire ai tedeschi il quantitative easing se non ci avesse messo abilità politica (tutti ricorderanno che la questione è finita davanti alla Corte costituzionale tedesca). Com’è noto, il mandato della BCE è, infatti, quello di controllare la quantità di moneta nel sistema attraverso “misure standard”, quali, per esempio, la operazioni di mercato aperto (acquisto e vendita di titoli a banche commerciali) e il controllo dei tassi di interesse. Ma la crisi dei debiti sovrani del 2011 ha dimostrato la scarsa efficacia degli strumenti tradizionali di politica monetaria. Di qui la rapida reazione di Draghi che, trasformando la strategia della Banca e, per molti versi, forzandone abilmente il mandato, ha cominciato ad iniettare liquidità nel sistema attraverso l’impiego di strumenti non convenzionali finalizzati a sostenere l’efficacia della politica monetaria tradizionale.

Draghi ha dimostrato abilità politica anche durante le consultazioni. Ha ascoltato molto, ed ha parlato pochissimo. E, quando ha parlato, le parole che più risuonavano sono state quelle dirette a mettere in chiaro le sue prerogative e quelle del Presidente Mattarella, con il quale ha costantemente interagito: il Presidente del consiglio propone al Presidente della Repubblica il nome dei ministri e il Presidente della Repubblica li nomina (art. 92 Cost).  

Vi è chi dubita che Draghi abbia la “bacchetta magica”. Si sfondano porte aperte: è chiaro che non ce l’ha in un sistema politico destrutturato, fragile, diviso, leaderistico, personalistico, bizzoso, come il nostro. Certo è che Draghi è quello di cui il nostro Paese aveva bisogno. Per la sua competenza, per la sua compostezza, per la sua eleganza. E non è poco.

*docente Università Mediterranea   

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