COSENZA La cosca Forastefano si è «trasformata da apparato militare in una impresa in grado di inquinare il tessuto economico della Sibaritide». Sono durate tre anni le indagini (partite nel 2016 e concluse nel 2019) condotte dalla squadra mobile di Cosenza, guidata dal vicequestore Fabio Catalano e dal Servizio centrale operativo della polizia, e dirette dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Capomolla e dal pm antimafia Alessandro Riello. L’operazione nome in codice “Kossa” ha permesso di disarticolare i vertici del clan alleato con la cosca Abruzzese. In conferenza stampa, nella sede della Questura di Cosenza, il procuratore Gratteri ha parlato di due clan capaci di «macchiare con il sangue anni di faide tra gli anni 90 e 2000». «Si tratta di un territorio vasto, ma negli ultimi anni siamo riusciti a lavorare su un unico progetto, quello di far fronte comune e programmare le indagini». Quella dei Forastefano è una famiglia «ossessionata dal controllo del territorio e di tutte le attività economiche». Un territorio in cui si sono registrati dieci omicidi negli ultimi anni e «l’operazione odierna – dice il vicequestore Catalano – ha permesso di interrompere l’equilibrio criminale presente sul territorio». Secondo il direttore centrale anticrimine Francesco Messina «quella imboccata oggi dalle forze dell’ordine è la strada che conduce ad una corretta repressione del fenomeno mafioso. La cosca – aggiunge – è riuscita a subentrare nelle imprese, condizionando anche i sindacati».
«Le vittime – a differenza di altre operazioni – hanno denunciato e collaborato con le autorità», dice il procuratore aggiunto, Vincenzo Capomolla. Un aiuto importante visto che la cosca «si avvale di di servizi quotidiani che afferiscono all’utilizzo di manodopera attraverso agenzie interinali». «Il clan – continua – ha usato questi dipendenti per concludere truffe ai danni delle stesse agenzia, e anche dell’Inps. Il meccanismo sofisticato ha portato anche all’uso distorto degli ammortizzatori sociali».
Secondo il direttore Messina, «per combattere le cosche è necessario incidere sui loro patrimoni illeciti. La lotta alla ‘ndrangheta – aggiunge – si fa soprattutto in Calabria, non si può arrivare a risultati utili se non si lavora bene in questa regione». Gli fa eco il direttore del servizio centrale operativo della Polizia di Stato Fausto Lamparelli. «Questi apparati criminali con la loro forza hanno soffocato chi cercava di lavorare in maniera legale costringendoli a piegarsi al loro volere». «Continueremo ad investire le nostre energie».
«La ‘ndrangheta che si evolve ha bisogno del mondo delle professioni, che a loro volta hanno abbassato di molto l’etica e la morale in nome del Dio denaro, è prona ai servigi all’imprenditoria mafiosa». Questo invece il commento del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. «E’ stata – ha aggiunto Gratteri – un’attività investigativa difficile, strutturata, che non ha il supporto di alcun collaboratore di giustizia, ma abbiamo deciso di investire più uomini e mezzi perché si tratta di una famiglia di ‘ndrangheta che aveva l’ossessione del controllo del territorio, non solo sul piano fisico , ma anche economico. Si tratta di famiglie di ‘ndrangheta che hanno un pedigree di ferocia, perché queste famiglie hanno insanguinato per anni interi ambiti e territori della provincia di Cosenza» (redazione@corrierecal.it)
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