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La morte di Cutolo al 41bis. La sua parabola criminale intrecciata con la ‘ndrangheta

L’amicizia con il clan De Stefano e i rapporti con il boss del Cosentino. E le rivelazioni su Moro «rapito con armi delle cosche calabresi»

Pubblicato il: 17/02/2021 – 23:23
La morte di Cutolo al 41bis. La sua parabola criminale intrecciata con la ‘ndrangheta

NAPOLI Era il camorrista per eccellenza Raffaele Cutolo, fondatore nonché capo della Nuova Camorra Organizzata morto nel reparto sanitario del carcere di Parma, lo stesso dove spirò a fine 2017 Totò Riina, dopo una lunga malattia. Aveva 79 anni ed era il carcerato al 41bis più anziano. Era detenuto, ininterrottamente dal 1979, dopo il suo arresto ad Albanella, in provincia di Salerno. Un anno prima era evaso in maniera clamorosa, a colpi di bombe, dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa (Caserta). E nella sua lunga parabola criminale aveva attraversato, da spettatore interessato, tutta la storia recente dell’ascesa della ‘ndrangheta nel novero delle organizzazioni criminali.

I legami con la ‘ndrangheta

Cutolo era anche stato battezzato ‘ndranghetista da Egidio Muraca, uno degli storici boss di Lamezia Terme negli anni 70 nel corso di un periodo di comune detenzione. Osservando i riti e le norme dei clan calabresi, il boss campano plasmò la Nuova camorra organizzata e entrò in contatto con la cosca De Stefano. Un’amicizia sfociata nell’omicidio di don Mico Tripodo nel carcere di Poggioreale, dove fu giustiziato da due camorristi. Quel delitto si trasformerà in una condanna all’ergastolo per Cutolo, che aveva legami profondi anche con i capiclan del Cosentino come Giuseppe Cirillo e Franco Pino, mammasantissima di Cosenza, oggi pentito.

O’ professore

Soprannominato “o’ professore”, nacque ad Ottaviano, in provincia di Napoli, il 4 novembre del 1941. Nel 1983 sposò Immacolata Jacone, nel corso di un matrimonio celebrato nel carcere dell’Asinara. Lo scorso giugno, il simbolo della criminalità organizzata non solo campana, è tornato alla ribalta delle cronache per la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna di lasciarlo in cella, al 41bis, malgrado le sue condizioni di salute incompatibili con la detenzione carceraria, per la sua pericolosità, rimasta intatta, secondi i giudici malgrado fosse vecchio e malfermo. Cutolo, infatti, non si è mai distaccato dalla mentalità camorristica, non ha mai voluto intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia ed è sempre rimasto fedele alle sue convinzioni. Il suo primo omicidio l’ha commesso per questioni di onore, per difendere la sorella Rosetta dagli apprezzamenti di un giovane del suo paese. Sulla sua vita sono stati scritti miriadi di articoli, libri e sono stati anche girati dei film.

«Potevo salvare Moro ma fui fermato»

Don Raffaele rilasciò delle dichiarazioni agli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli (il pm Ida Teresi e il capo della Dda dell’epoca, Giuseppe Borrelli, attuale procuratore a Salerno) rivelando di avere avuto addirittura la possibilità di impedire l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Furono parole “pesanti” quelle pronunciate dal professore, messe a verbale il 25 ottobre del 2016: «Potevo salvare Moro ma fui fermato». «Aiutai – spiegò Cutolo – l’assessore Cirillo (rapito e successivamente rilasciato dalle Br, ndr), potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi». Nel ’78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, sostiene lui, di salvare Moro. «Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava».

«Armi della ‘ndrangheta per rapire Moro»

Riguardo al rapimento dello statista della Dc, il boss spiegò in un interrogatorio del 2015, che «le armi usate dal commando terroristico per sequestrare e uccidere il presidente della Democrazia Cristiana e gli uomini della sua scorta provenivano dall’arsenale della ‘ndrangheta in cambio di una contropartita coi terroristi. Uno scambio di cui erano al corrente anche pezzi deviati dei servizi segreti. Quando ero nel carcere di Ascoli Piceno, seppi che, in epoca immediatamente antecedente al sequestro Moro, ci furono ripetuti contatti di membri delle Br con ambienti ‘ndranghetisti – riferì ancora – al fine di acquisire armi in favore dei terroristi, armi da utilizzare per l’assalto di via Fani, dove Moro fu rapito dopo una carneficina nella quale rimasero uccisi i cinque uomini della scorta».

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