REGGIO CALABRIA Più persone per un’unica “famiglia”. Il filo conduttore della testimonianza di Francesco Siclari, intrecciato con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, porta dritto alla cosca “sovrana” del “mandamento Centro” di Reggio Calabria, i De Stefano.
Una delle articolazioni del clan che gestisce gli affari illeciti del centro città fa capo a Paolo Rosario De Stefano, già Caponera, figlio naturale del defunto Giorgio De Stefano, classe 1941 e fratello dello storico boss Paolo De Stefano, classe 1943, anche lui defunto.
Condannato nel 2009 a otto anno di reclusione, risulta attualmente detenuto in forza della misura cautelare conseguente al fermo emesso dalla Dda nel maggio 2017 nell’ambito dell’operazione “Trash” contro l’omonima cosca. Nel 2005 era riuscito a sottrarsi all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa nell’ambito dell’operazione “Number One” ed anche in quella circostanza gli addebiti mossi nei suoi confronti erano di associazione mafiosa, tentata estorsione e rapina. In seguito, la sua latitanza era cessata il 18 agosto 2009 a Sant’Alessio Siculo, in provincia di Messina.
Al centro dell’inchiesta “Nuovo Corso” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria – che ha portato all’esecuzione di 5 richieste di custodia cautelare nei confronti di altrettanti presunti componenti della consorteria del quartiere Archi – ci sono le vicende estorsive che interessano il sopracitato imprenditore, aggiudicatario (insieme a un altro imprenditore di provincia diversa) dei lavori di pavimentazione di Corso Garibaldi.
Uno degli episodi che condurranno Siclari alla scelta di denunciare tutto agli inquirenti è quello del “sequestro” da parte di alcuni sodali che, accortisi della sua crescente riluttanza nel corrispondere le “mazzette”, decidono di portarlo a cospetto del capo cosca, in un appartamento nella zona prossima all’Università.
La procura escute Siclari nel periodo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 sebbene i fatti in esame siano molto più risalenti nel tempo, interessanti un periodo che parte dall’anno 2011 e si protrae fino al 2018. Uno degli ambasciatore delle richieste estorsive della cosca è Andrea Giungo, legato da un rapporto di conoscenza allo stesso Siclari, tra l’altro ex compagni di classe al liceo. Così fino al 2014, quando Giungo verrà arrestato e sostituito da altri soggetti, anch’essi implicati nell’operazione odierna.
Dopo essere tornato in libertà, Giungo riparte alla carica convocando Siclari, tramite un emissario, all’interno della vicina Cattedrale reggina, «per un abboccamento al riparo da occhi indiscreti».
Nella circostanza, oltre a chiedergli di «fare il suo dovere» con riguardo ai pagamenti pregressi sui lavori di Corso Garibaldi, facendo «un inquietante riferimento ai danneggiamenti e ai furti subiti da Siclari, gli offriva “protezione”, previa corresponsione del “pizzo”, anche per i lavori di Piazza Duomo». Qui incontra le prime resistenze. «Gli ho detto – racconta l’imprenditore ai sostituti procuratori Ignazitto e Musolino – mi avete rubato un escavatore che valeva 50mila euro (…) se parliamo di percentuale un milione di euro (costo dei lavori, ndr) il 2% sono 20mila sono creditore io nei vostri confronti». Siclari lamentava il danneggiamento e il furto di alcuni mezzi dal cantiere di Piazza Duomo avvenuto nella notte tra il 10 e l’11 giugno 2015 presumibilmente ad opera della cosca e per questo motivo si rifiutava di pagare. A quel punto, Giungo si dimostra accondiscendente e gli dice «tra qualche giorno ti faccio incontrare una persona».
«E in effetti – scrive la procura – qualche tempo dopo, si verifica un ulteriore inquietante episodio».
Nel periodo calcolato tra settembre e ottobre del 2016, Siclari, a bordo del suo ciclomotore viene raggiunto da una moto di grossa cilindrata con in sella Andrea Giungo e un altro individuo, che lo costringono a seguirli. Nei pressi della facoltà di Architettura dell’Ateneo reggino viene fatto salire a bordo di un’auto che lo conduce in un’abitazione della zona di Via Marconi in quel periodo locata a persona terza, dove «la cosca aveva organizzato un incontro riservato per indurlo a sottomettersi ai suoi “desiderata”».
«Io spingo la porta, dietro la quale c’era Giungo. – racconta Siclari – Mi porta in una stanza dietro, quasi semi buio c’era sto signore, lui mi dice: “Senti lui è il capo della nostra famiglia… ti presento lui è il capo famiglia nostro, è uscito da poco”.
Appare chiaro a questo punto il riferimento a Paolo Rosario De Stefano, che dopo una lunga detenzione per 416-bis era tornato in libertà l’anno precedente.
Nella ricostruzione dell’imprenditore, il capo cosca, «da vero portatore di alto lignaggio mafioso», come scrive il gip Tommasina Cotroneo, lo aveva accolto con apparente garbo, senza proferire esplicite minacce, nonostante le pregresse resistenze alle richieste estorsive. Anzi, gli garantisce “protezione” «se egli avesse manifestato “amicizia” nei confronti del sodalizio».
Nella ricostruzione di Siclari, De Stefano gli avrebbe detto: «Noi siamo in grado di proteggervi, da Melito fino a Locri fino a Gioia Tauro noi non abbiamo problemi, siamo una famiglia potente che possiamo intervenire dappertutto».
L’imprenditore, impaurito, chiede uscire dal giro estorsivo e di «non aver bisogno di protezione», ma che si sarebbe limitato a portare a termine l’impegno di corrispondere una percentuale sui lavori di Corso Garibaldi. Ma il boss – in seguito all’incontro riconosciuto da Siclari in alcune foto su internet – avrebbe rimarcato con fine evidentemente intimidatorio, che la “famiglia” era a conoscenza di abitudini e spostamenti dell’imprenditore e che proprio per questo avrebbe potuto proteggerlo.
L’incontro però produce l’effetto contrario. Siclari aumenta le sue resistenze, ancora più impaurito di prima della possibilità di intrattenere rapporti diretti col boss. Motivo per cui comincia ad essere più sfuggente e continua ad evadere i pagamenti. Sarà a questo punto – scrivono gli inquirenti – che, restando da «versare le ulteriori rate dell’estorsione per i lavori di Corso Garibaldi» nel «teatrino di ‘ndrangheta sapientemente costruito dalla cosca, per vincere le resistenze dell’imprenditore, faceva il suo ingresso un nuovo personaggio, apparentemente più tranquillizzante, ma non meno insidioso», ovvero Domenico Musolino, al quale Siclari verserà le ulteriori rate (per un ammontare di circa 50mila euro) tra il 2017 e il 2018.
La ricostruzione della vicenda e la sua evoluzione fanno comprendere come la ‘ndrangheta, seguendo «un tipico canovaccio» alterni un atteggiamento di subdola vicinanza e “protezione” della vittima all’intimidazione.
Il gip, in sede di convalida delle misure cautelari richieste dalla procura, ritiene «di altissima validità e attendibilità» il dichiarato accusatorio di Siclari, tra l’altro confermato nella ricostruzione offerta dal collaboratore di giustizia Maurizio De Carlo. Questi, già prima delle dichiarazioni rilasciate da Siclari, aveva fatto riferimento a uno dei soggetti odierni indagati, tale Domenico Morabito detto “il rospo” quale fedelissimo di Paolo Rosario De Stefano, oltre che ad Andrea Giugno quale suo «referente».
Secondo il gip, le circostanze riferite da De Carlo «armonizzano con i narrati di Siclari».
«Coloro i quali si erano presentati al suo cospetto nel tempo per pretendere il pagamento delle “tranches” estorsive erano proprio coloro i quali sono stati ripetutamente indicati da De Carlo quali uomini fedelissimi e di fiducia di Paolo Rosario De Stefano ed intranei al sottogruppo da costui capeggiato all’interno del più ampio sodalizio mafioso omonimo».
Nel frattempo, il Comune di Reggio definisce «inquietante quello che viene fuori dagli esiti dell’indagine della Dda di Reggio Calabria, con l’operazione eseguita dalla Polizia di Stato, che ha scoperchiato il sistema estorsivo operato dalle cosche reggine ai danni di alcune imprese incaricate di realizzare i lavori del nuovo corso Garibaldi e della nuova piazza Duomo». Motivo per il quale, il sindaco Falcomatà annuncia la costituzione di parte civile in sede processuale. «Reggio non è solo ‘ndrangheta, dobbiamo essere capaci di affermarlo con forza, sostenendo la parte sana della nostra comunità, che è la stragrande maggioranza, che non ha più alcuna voglia di sottostare al giogo della ‘ndrangheta». (redazione@corrierecal.it)
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