Si fa interessante il dibattito sul posizionamento della Lega nello scacchiere politico dopo che la chiamata di Draghi al governo ha scompaginato il tavolo di gioco, provocando per di più all’interno dei partiti turbamenti non facilmente gestibili. Penso, in particolare, all’implosione del Movimento 5Stelle, seguita alla fronda di un nutrito drappello di parlamentari contrari alla fiducia al governo Draghi. Ma penso anche ai turbamenti del Partito democratico; benché la sinistra ci abbia storicamente abituato a tormenti interni e a sofferti strappi, non v’è dubbio che il governo Draghi, oltre ad offuscare la prospettiva del dialogo organico e programmatico con i 5Stelle e con Leu, ha messo in moto meccanismi interni che spingono le varie anime del Partito verso un nuovo lavacro congressuale. Anche all’interno dell’alleanza – in realtà, non poco “guardinga” – tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, il quadro dei rapporti è mutato, foss’anche soltanto “nominalmente”, se non altro perché Lega e Forza Italia hanno scelto di traghettare verso il governo Draghi, lasciando nella “splendida solitudine” dell’opposizione i compagni di cordata di Fratelli d’Italia.
Il rapido mutamento del quadro politico la dice lunga sulla tanto dibattuta “liquidità” dei partiti. Non più strutturati intorno a solide ideologie, sono assai poco capaci di forti elaborazioni politico-culturali e, quindi, di visioni strategiche, subendo di conseguenza (e, al tempo stesso, coltivando) le tentazioni tattiche, quando non meramente elettoralistiche, nell’ambito di prospettive di corto respiro. Mancando di capacità di elaborazione politico-culturale, la politica ha bisogno di affidarsi alla competenza dei «tecnici» quando i nodi vengono al pettine. Ma il discorso sarebbe lungo e non è questo il momento di affrontarlo.
Venendo al tema, suscita interesse – dicevo – il nuovo collocamento della Lega nello scenario politico. Non poco ammaccata dopo l’uscita dal governo Conte, la Lega oggi acquista una rinnovata centralità. Ne ha attraversate di ere il partito che fu di Bossi. Non è certo un partito nuovo. S’impone negli anni ’90 del secolo scorso, e nei prati di Pontida inneggia all’indipendenza della Padania, gridando contro la “Roma ladrona”, salvo poi stare – per così dire – “diversamente” seduta nelle poltrone della Capitale. Con Salvini, dopo lunga ed articolata vicenda, la Lega “Nord” diventa Lega “nazionale”, attraendo consenso addirittura nelle lande del tanto vituperato Sud e sfondando resistenze che prima si immaginavano insuperabili. Il dato è certamente significativo, e colloca la Lega come partito “anche” di opinione. Dico “anche” di opinione, perché, al di là delle semplificazioni del discorso politico e delle parole di bandiera variamente urlate che raggiungono e catturano ceti poco attrezzati culturalmente, la Lega è un partito che, a differenza di molti altri partiti (leaderistici, personalistici, destrutturati) ha un forte radicamento che, insieme, è sociale e territoriale. Sono i ceti produttivi del Nord l’ossatura della Lega. Sono le piccole e medie imprese e le partite Iva ad essere consapevoli che la stagione del sovranismo e della retorica nazionalistica lascia il tempo che trova se non ha modo di tradursi efficacemente nella difesa degli interessi nazionali. E la difesa degli interessi nazionali, fuori dalla cornice europea, è pura velleità. Certo, fa effetto vedere l’uno di fronte all’altro Mario Draghi, compassato banchiere centrale, e Matteo Salvini, che da ministro degli interni non disdegnava l’allegra brigata del Papeete. E, però, Mario Draghi, agli occhi della borghesia produttiva del Nord, è quello che, resistendo all’onda d’urto dei Paesi ortodossi che gli rimproveravano di andare molto vicino a inammissibili forme di finanziamento dei disavanzi pubblici e quindi di spingersi oltre il mandato della Banca centrale europea, ha salvato l’euro. E, con l’euro, l’Italia. Senza le coraggiose e lungimiranti politiche non convenzionali della Bce di Draghi, sarebbe divenuto insostenibile il costo del finanziamento del nostro debito pubblico, che avrebbe finito per esplodere. E l’Italia è un Paese che, come le grandi banche, è “too big to fail” (troppo grande per fallire), se non al prezzo di incalcolabili drammatiche conseguenze sistemiche. È in questo senso che Draghi, nel suo discorso programmatico, ha sottolineato che «Senza Italia non c’è Europa», aggiungendo però che «fuori dall’Europa c’è meno Italia». Fuori dall’Europa l’Italia è più debole. Proprio di questo sono consapevoli i ceti produttivi del Nord. E ne è stato sempre consapevole Giancarlo Giorgetti, che non da ora spinge per collocare il partito nello spazio moderato dello scacchiere politico. Testa pensante della Lega, molto vicino a Draghi e non caso fatto sedere sulla poltrona del Ministero dello sviluppo economico (bollente in questo momento di crisi aziendali), Giorgetti, come i ceti produttivi del Nord con cui ha sempre coltivato un dialogo fitto, è convinto che la miglior difesa degli interessi nazionali passa attraverso l’Europa, a maggior ragione ora, quando cioè occorre governare con sapienza, lungimiranza, visione strategica il fiume di miliardi del Recovery Fund.
Da Responsabile degli affari esteri della Lega, Giorgetti da qualche tempo aveva cominciato la lenta virata lungo la rotta che porta al Partito popolare europeo, allo scopo di far uscire il partito dall’abbraccio dell’estrema destra della Le Pen e della Afd tedesca. Abbraccio imbarazzante, e alla lunga anche suicida, per i ceti produttivi della Lega che coltivano disegni di governo. L’onda lunga della virata europea, che ad oggi ha il suo punto di massima rottura del fronte sovranista nell’approvazione del Recovery Fund da parte degli europarlamentari della Lega, si rovescia in Italia, rivelandosi potenzialmente in grado di cementare nuove saldature in uno spazio moderato che, da un lato, vede una fase di declino o, comunque, di appannamento di Forza Italia e, dall’altro, clamori liberaldemocratici (penso, in particolare, a Toti, Renzi, Calenda).
Mentre si gioca la sfida della conquista del centro moderato, Fratelli d’Italia, sulla riva del fiume, aspetta di lucrare i “vantaggi” derivanti sia dalle difficoltà che attraversa il Paese sia dalle delicate scelte che dovrà affrontare il governo, coltivando intanto l’ambizione di rappresentare in maniera sempre più forte la destra conservatrice (è recente la nomina di Giorgia Meloni a Presidente del Partito dei conservatori e riformisti europei). Se Fratelli d’Italia aspetta sulla riva del fiume, il Partito democratico si ritrova a metà del guado, annacquato dentro il governo Draghi, nei suoi eterni tormenti.
*docente Università Mediterranea di Reggio Calabria
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