L’altro giorno stavo correggendo un capitolo di una delle tante tesi di laurea che gli studenti del mio corso universitario alla “Magna Graecia” di Catanzaro, sempre più numerosi per verità, chiedono nella mia materia d’insegnamento di Genesi e dinamiche delle organizzazioni criminali.
E mi sono imbattuto nelle solite litanie catastrofiste sulla presenza della criminalità nel nostro territorio. Sia chiaro: non sono certo un negazionista, ma spesso ho l’impressione si parli e si scriva del fenomeno in termini assolutistici e trancianti, senza evidenziare luci ed ombre del permanente contrasto al crimine organizzato. È come se chi opera in questo settore fosse maggiormente interessato ad evidenziare gli sforzi che ancora devono essere compiuti che non invece ai traguardi raggiunti. E non solo attraverso il sistema giudiziario quanto dall’impegno della società tutta sul tema della legalità. Faccio un esempio: si scrive di donne di mafia, attive nei sodalizi, ma s’ignora che il progresso sociale ha modificato non soltanto in pejus il ruolo della donna in contesti criminali ma, per opera di agenzie educative efficienti e per lo stesso livello culturale raggiunto, sono venute alla luce tante “mamme coraggio”, le quali hanno rinunziato a crescere i loro figli in famiglie difficili pur di assicurare loro una vita diversa, lontana da condizionamenti criminali. Ricordate il progetto “Liberi di scegliere” e l’impegno di Roberto Di Bella, presidente del Tribunale peri Minorenni di Reggio Calabria? Quasi sempre i miei studenti ne ignorano addirittura l’esistenza: eppure si tratta di un’opera di enorme impatto.
Un giudice che ha a che fare quotidianamente con i figli delle più importanti famiglie ‘ndranghetiste dovendo decidere del loro futuro. E pensa a misure alternative alla prigione che possano fornire ai ragazzi la possibilità di una crescita sociale e culturale in contesti e luoghi lontani da quelli di provenienza. Li concorda con i ragazzi e con le madri. I casi sono moltissimi.
Ecco, ho fatto questo esempio, per dire che c’è del bene che non fa rumore e che, anche nella Magistratura, opera in modo più incisivo, rispetto alla mera repressione.
Vorrei quindi che si tornasse a parlare anche del bene.
Capisco che i combattenti aspirano all’alloro se non al martirio, capisco pure che tanti li seguano poiché giova mettersi dalla “parte giusta”, ma a contrastare il crimine organizzato deve pensarci in primo luogo uno Stato efficiente, che offra lavoro ed opportunità ai nostri giovani, specie a quelli a rischio devianza.
Uno Stato che sa chinarsi sulle ferite della società e sa attivare strumenti di protezione per i tanti giovani senza voce, per incoraggiare, ad esempio, le madri dubbiose sulle reali alternative.
Mi piacerebbe che, specialmente in questo periodo di pandemia, si tornasse a parlare del bene che c’è, per potenziare le strutture di volontariato, quelle della Chiesa delle periferie, che svolgono un lavoro egregio nel settore del disagio sociale.
Lo Stato in queste realtà non può essere soltanto rappresentato da un presidio di polizia!
L’altro giorno ho sentito in TV un signore che ringraziava i medici che lo avevano vaccinato,per la gentilezza e la delicatezza usata.
Ecco,è giusto che i giornalisti facciano da “cani da guardia del potere”, magari ce ne fossero di più!
Ma non si dimentichi che c’è anche un’Italia buona, capace e competente (a proposito perché non si comincia a passare al vaglio le effettive competenze?),perlopiù silente, che tanto fa e tanto può fare e che merita di essere irrobustita.
Occorre offrire modelli positivi del quotidiano, non concentrarsi soltanto sugli eroi (che pure meritano il massimo rispetto) di cui però non abbiamo bisogno.
Bisogna dare fiducia ai cittadini perché le fila di coloro che fanno il bene attraverso le agenzie educative si arricchiscano di nuove forze.
Vedete, i modelli da mostrare ai giovani nelle scuole sono questi del lavoro certosino nel sociale, non soltanto i magistrati delle Procure quali unici simboli di legalità.
La legalità appartiene alla società non soltanto alla Magistratura che non ne è l’unica depositaria.
Basta dunque con i disfattisti ed i catastrofisti, perlopiù autoreferenziali: per costoro viene il sospetto che la lotta valga soltanto se finisce sotto le telecamere, mentre gli strumenti più efficaci rimangono negletti e gli esiti dei maxiprocessi pure.
*Professore a contratto di Genesi e dinamiche delle organizzazioni criminali nel Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia, dell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
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