REGGIO CALABRIA «Portami sette operai. Manda qualcuno a controllare i lavoratori, le cassette sono poco piene».
Queste sono alcune delle frasi estratte dalle intercettazioni finite negli atti dell’indagine “Rasoterra” volta a sgominare una rete collaudata di sfruttamento della manodopera agricola. Uno spaccato criminale significativo – come lo definisce il questore di Reggio, Bruno Megale – ancora una volta interessante la Piana di Gioia Tauro.
Il centro nevralgico è l’ex “baraccopoli della vergogna” sita nell’area industriale del Comune di San Ferdinando fino allo smantellamento dello scorso 6 marzo 2019. Benché l’indagine si riferisca al periodo tra il 2018 e il 2019, ancora oggi, dicono gli inquirenti, «in quel territorio si verifica un sostanziale incontro tra domanda e offerta»: da un lato i datori di lavoro «chiedono manodopera a basso costo», dall’altro i lavoratori, soprattutto se migranti, «vivendo in condizioni di assoluto disagio, accettano condizioni lavorative ben inferiori rispetto a quelle previste dal contratto collettivo».
I braccianti, spiega il capo della squadra mobile, Francesco Rattà, venivano pagati 25 euro al giorno per un periodo lavorativo medio tra le 10 e le 12 ore quando il minimo salariale – a fronte di meno ore lavorative – è di 46 euro lordi a giornata (corrispondenti a circa 41 euro netti). Il compenso si traduceva in circa 50 centesimi a cassetta di agrumi, cifra che dà la dimensione «dello sfruttamento e del profitto ricavato dallo stato di bisogno».
I migranti lavoravano in condizioni di pericolo oltre a non aver seguito alcun tipo di corso per l’introduzione al lavoro, senza dispositivi di protezione individuale.
«L’estrema vulnerabilità degli attori coinvolti – dice ancora la questura – non li rende propensi a denunciare le attività illecite e lo sfruttamento. Stiamo intensificando l’attività preventiva di questi fenomeni che una volta consumatisi rischiano pertanto di rimanere nell’ombra».
Nella mattinata odierna la squadra mobile di Reggio Calabria e quella di Caserta insieme al commissariato polizia di Gioia Tauro, coadiuvati dagli equipaggi del Reparto Prevenzione Crimine, hanno dato esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip a fronte delle richieste avanzate dalla procura di Palmi. Rimangono coinvolti nell’indagine nove soggetti sia italiani che stranieri, attinti da altrettanti provvedimenti restrittivi (6 ai domiciliari e 3 in carcere).
Le condotte contestate sono a vario titolo di sfruttamento agricolo – riferibile al fenomeno del “caporalato” disciplinate al 603-bis del codice penale per come riformato nel 2016 – e intestazione fittizia di beni.
L’attività d’indagine affonda le sue radici nel 2018 e vede al centro la figura di Filippo Raso, già condannato per associazione mafiosa e detenuto per altra causa. Gli inquirenti lo descrivono come «soggetto avente collegamenti con la locale cosca “Piromalli-Molè”. Questi sarebbe stato «condannato per associazione mafiosa e sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno del comune di residenza ed è stato destinatario della misura di prevenzione della confisca». Pertanto non poteva essere proprietario formale di un’azienda agricola. Questi avrebbe «escogitato un vero e proprio sistema illecito basato sullo sfruttamento della manodopera agricola» che passa attraverso l’intestazione fittizia di una cooperativa alla figlia, Raffaella Raso, indagata a piede libero. Il gip ha contestualmente disposto il sequestro preventivo della ditta attiva nel settore delle coltivazioni agrumicole, olivicole, di kiwi e ortaggi, che riconosceva il vero “dominus” proprio in Filippo Raso.
Raso avrebbe sfruttato la presenza di cittadini immigrati (irregolari e non) stanziati nell’allora insediamento informale di San Ferdinando e in altri insediamenti della piana.
Per farlo si sarebbe servito di un «meccanismo di reclutamento della manodopera assolutamente collaudato». Il titolare occulto della ditta si serviva dell’apporto di due caporali tra cui il senegalese Ibrahim Ngom detto “Rasta” e tale Karfo Kader, originario della Costa d’Avorio, catturato a Caserta, destinatari della custodia cautelare in carcere.
A quest’ultimo sarebbe stato «demandato il pagamento delle giornate di lavoro dei singoli operai che erano impiegati nella raccolta degli agrumi, nonché il compito di guidare i furgoni a bordo dei quali venivano condotti i lavoratori nei campi».
Questi avevano il compito di «reclutare la manodopera in maniera constante e al fine di soddisfare qualunque tipo di esigenza».
L’attività d’indagine ha permesso di accertare come i caporali fossero in grado di reclutare manodopera tanto dalla baraccopoli quanto al Nord Italia. In un caso specifico, un soggetto straniero era stato reclutato a Torino e portato a Reggio Calabria per lavorare nella ditta facente capo a Filippo Raso. Questo aspetto dell’indagine fa capire inoltre come questo sistema fosse ramificato. «Uno dei caporali – dice la procura – è stato fermato a Caserta, operando un simile sistema sul territorio campano e a Foggia».
Oltre ai “caporali”, Raso avrebbe potuto contare su una rete di faccendieri che con vari compiti quali «il reclutamento, la sorveglianza e il trasporto» con l’ingombenza principale di «recuperare automezzi gli automezzi per il trasporto illecito dei braccianti».
Sono stati raggiunti da misura cautelare degli arresti domiciliari: Pasquale Raso, Mario Montarello, che svolgeva l’importante ruolo di tenere i contatti con i caporali e controllare il lavoro degli extracomunitari; Giacomo Mamone, compito di fornire i mezzi per il trasporto dei lavoratori extracomunitari; Francesco Calogero, titolare di un’azienda agricola; Domenico Careri, Vincenzo Straputicari, che in contatto coi caporali avrebbe «reclutato per suo conto lavoratori extracomunitari». (redazione@corrierecal.it)
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