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il caso

«Ha disegnato l’avvocato Pagliuso come un traditore agli occhi della cosca»

Appello della Dda contro l’assoluzione del penalista Larussa accusato di favoreggiamento, procurata inosservanza della pena e violenza privata

Pubblicato il: 05/03/2021 – 8:00
di Alessia Truzzolillo
«Ha disegnato l’avvocato Pagliuso come un traditore agli occhi della cosca»

CATANZARO Aveva ricevuto il latitante Daniele Scalise, esponente apicale dell’omonima cosca lametina (ucciso a colpi di kalashnikov a giugno del 2014), nel proprio studio nel quale aveva invitato per un colloquio anche l’avvocato Francesco Pagliuso (assassinato il 9 agosto del 2016). Daniele Scalise all’epoca era latitante (è stato uccel di bosco dal marzo 2012 al marzo 2013) per sottrarsi a una condanna emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro. L’avvocato Pagliuso (in foto), che aveva raggiunto lo studio dell’avvocato Antonio Larussa insieme a due collaboratori, ha abbandonato l’incontro «irritato e infastidito per la presenza inaspettata del latitante Scalise, per aver preso atto dell’ingresso nell’attività defensionale del Larussa e dell’indisponibilità dello Scalise di costituirsi». Secondo il gup Paola Ciriaco che ha assolto, a ottobre 2020, l’avvocato Antonio Larussa dall’accusa di favoreggiamento personale e procurata inosservanza della pena, aggravate dal metodo mafioso, «si è trattato di un incontro avente natura professionale; avente ad oggetto, secondo quanto ricostruito, l’eventuale affiancamento del Larussa nella difesa degli Scalise e che non ha in alcun modo riguardato la prosecuzione, né le modalità, della latitanza dello Scalise».

L’appello della Dda

Di avviso decisamente avverso è il parere della Dda di Catanzaro che ha proposto appello alla sentenza di assoluzione. Il sostituto procuratore Pasquale Mandolfino sottolinea, nella dichiarazione di appello, un dato emerso dagli atti del procedimento, ovvero «i plurimi incontri con lo Scalise» avvenuti nello studio dell’avvocato Larussa «ad uno dei quali partecipava anche il Pagliuso» il quale se ne era andato malamente. «Essenzialmente – scrive il pm – occorre valutare il peso dello svolgimento di detti incontri il Larussa e lo Scalise alla luce dell’opera denigratoria che, nel frattempo, il Larussa aveva messo in atto in danno dell’operato professionale del Pagliuso». Incontri, finalizzati da parte dell’avvocato Larussa «ad introdursi nella difesa dello Scalise e culminavano con l’incontro a cui partecipava il Pagliuso, nel corso del quale veniva comunicato a quest’ultimo, appunto l’affiancamento del Larussa al medesimo Pagliuso» per la difesa di Daniele Scalise.

«Ha favorito la latitanza di Scalise»

Secondo l’accusa gli incontri erano «concretamente e consapevolmente funzionali «al mantenimento dello stato di latitanza dello Scalise», dato che «emerge chiaramente dal fatto che il Pagliuso abbandonava lo studio innervosito allorché, dopo essere stati convocato dal proprio collega alla presenza anche dello Scalise, capiva che il Larussa intendeva sì assistere professionalmente Scalise, ma non già nel senso di farlo costituire. Insomma – prosegue Mandolfino –, il disappunto del Pagliuso nell’essere portato da un proprio collega al cospetto di un cliente latitante e nel percepire che detto incontro non fosse finalizzato alla consegna del cliente latitante all’autorità pubblica, va letto, a contrario, come contributo da parte dell’avvocato Larussa a far proseguire lo stato di latitanza dello Scalise».

La violenza privata e l’episodio del bosco

All’avvocato Larussa viene contestato anche il reato di violenza privata aggravata poiché avrebbe concorso moralmente al reato insieme ad altri soggetti, tra i quali Pino Scalise (padre di Daniele Scalise e attualmente imputato nel processo Reventinum con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Francesco Pagliuso). La violenza privata, nella quale, secondo l’accusa, Larussa avrebbe avuto il ruolo di istigatore nella fase di ideazione del reato, si è configurata nell’imporre all’avvocato Pagliuso, con violenza e minaccia di morte a mano armata, di seguire la linea difensiva prospettata da parte della cosca e tollerare la co-difesa dell’avvocato Larussa. Imposizioni ordinate dopo avere condotto l’avvocato Pagliuso in un bosco, averlo incappucciato, malmenato e condotto davanti a una buca scavata con un mezzo meccanico, minacciando di scaraventarlo all’interno di quella buca. 

Messo in cattiva luce dal collega

Tale condotta sarebbe stata istigata proprio da Larussa il quale avrebbe prospettato uno scarso impegno di Pagliuso nella difesa di Daniele Scalise in un processo per truffa davanti al Tribunale di Cosenza.

L’avvocato Pagliuso confidò quanto accaduto alla sorella, e a diversi colleghi della Camera penale di Lamezia Terme tra i quali l’allora presidente Pino Zofrea e, durante una riunione della Camera penale, ai colleghi Ortenzio Mendicino, Teresa Bilotta, Leopoldo Marchese, Luca Scaramuzzino, Gianfranco Puteri, Gianfranco Agapito, Anna Moricca. Tutti, sentiti a sommarie informazioni, hanno confermato quanto accaduto e anche la volontà di Pagliuso di non procedere a denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine. Successivamente è stato aperto un procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato Larussa dopo l’arresto del killer di Pagliuso, Marco Gallo.

Secondo il gup non vi sono dubbi su quanto accaduto a Pagliuso nel bosco, nell’estate 2012. Il gup ha assolto l’avvocato Larussa anche dall’accusa di violenza privata aggravata dal metodo mafioso, per non aver commesso il fatto. Il giudice ammette che «emerge all’esito delle indagini come il Larussa evidentemente abbia messo in cattiva luce l’operato del collega – per come riferito dalla sorella della vittima nonché dall’avvocato Zofrea – avendo il Pagliuso avuto la netta percezione che gli aggressori si riferissero all’attività professionale da lui svolta in favore dello Scalise, ed evidentemente screditata dal Larussa».
Secondo il gup «l’ipotesi accusatoria è infondata nella parte in cui individua l’avvocato Larussa quale soggetto istigatore del delitto, per avere screditato la vittima agli occhi dei suoi clienti, i quali hanno successivamente posto in essere» il sequestro e le minacce.

La condotta dell’avvocato Larussa, scrive il giudice, «consistente in insinuazioni o affermazioni – non è bene emerso in che forma – si è limitata, per quanto emerso all’esito delle indagini, al solo gettare ombra o dubbi sull’operato del collega, senza che possa perciò solo ritenersi che egli abbia sollecitato gli Scalise ad agire di conseguenza».

«Una campagna denigratoria contro Pagliuso»

Di parere diametralmente opposto il pm Mandolfino secondo il quale «il contegno materiale del Larussa costituisce causa efficiente, genetica o rafforzativa, del proposito criminoso degli autori materiali del reato». Secondo l’accusa già nel 2012 Larussa «poneva in essere una sorta di campagna denigratoria in danno dell’avvocato Francesco Pagliuso nelle vesti di difensore di Daniele Scalise. L’accusa pone l’accento sul contesto professionale e criminale nel quale operavano sia Francesco Pagliuso che Antonio Larussa, penalisti in un territorio come quello caratterizzato dalla malavita organizzata lametina dove il «rapporto tra il cliente e il difensore si caratterizza fisiologicamente per particolare intensità e profondità, pur nel rispetto dei ruoli e delle leges artis legali».
Le cosche mettono i difensori a parte di informazioni, particolari e dinamiche relazionali così da poter garantire all’avvocato di articolare la migliore difesa possibile.
Alla luce di tutto ciò «l’attività di discredito da parte del Larussa in danno del proprio collega Pagliuso oltre a costituire un precedente cronologico, costituisce anche un precedente logico dell’episodio del bosco». «I due eventi – prosegue l’accusa – non possono non essere messi in relazione se si riflette sul fatto che, da quanto emerso all’esito delle indagini preliminari, il gruppo Scalise, all’epoca, non aveva particolari motivi di attrito con l’avvocato Pagliuso se non soltanto le doglianze in ordine all’attività di difesa svolta dal Pagliuso a tutela di Scalise, doglianze che lo stesso avvocato Larussa aveva rappresentato verbalmente ed espressamente ai componenti del gruppo» proponendosi di subentrare come co-difensore di Daniele Scalise. 

Secondo l’accusa, in sostanza, l’unica ragione per cui gli Scalise, nell’estate 2012, portarono l’avvocato Pagliuso, incappucciato, in un bosco davanti a una buca, imputandogli errori professionali e imponendogli la co-difesa di Larussa «va ricercata – scrive il pm – solo ed esclusivamente nell’opera di convincimento e nella successiva campagna denigratoria messa in atto dal Larussa con il Pagliuso presso gli Scalise».
L’accusa, inoltre, insiste su un altro elemento che potremmo così sintetizzare: l’avvocato Larussa non poteva non conoscere la caratura criminale dei propri clienti e le reazioni che le proprie affermazioni potevano suscitare, non poteva non essere consapevole che, attraverso il proprio comportamento, stesse incrinando «il rapporto di fiducia tra il capo-cosca e il difensore (Pagliuso, ndr) anche disegnando l’avvocato in questione agli occhi del gruppo criminale assistito alla stregua di un traditore». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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