La politica ci ha ormai abituato da diversi lustri – e, più precisamente, da quando a presidiare la stabilità del consenso non vi sono più assetti ideologici ben definiti – a forti accelerazioni e a rapidi mutamenti, che non riguardano solo l’elettorato, in larga parte d’opinione in un così liquido scenario politico, ma anche le scelte dei partiti, le loro prospettive, le loro alleanze e, addirittura, la loro stessa lettura della realtà. Se la Merkel si guarda alle spalle, troverà il ritratto di sette predecessori. Se lo fa Draghi, dovrà percorrere una lunga galleria per arrivare al ritratto del primo Presidente del Consiglio dei ministri. Nella sua stessa legislatura lo precede il “Conte 1” e il “Conte 2”, l’uno con una maggioranza ovviamente diversa da quella che ha sostenuto l’altro.
Il continuo rapido cambio dei governi costringe la politica a scelte tattiche e non strategiche, a prospettive di corto respiro e non lungimiranti, a inseguire il consenso facile anche quando occorrono decisioni impopolari. Oltretutto, il cambio di governo si riflette a cascata sull’intera cinghia di trasmissione amministrativa, e il tempo di recepire l’indirizzo politico è danaro. E danno per il mondo economico.
Il governo Draghi ha fatto deflagrare la crisi del Movimento 5Stelle, e anche quella del Partito democratico che, attraversato dal demone della divisione interna, farebbe meglio a ricercare le ragioni fondative della sinistra, la sua identità culturale, prima ancora che politica, e il suo mondo di riferimento. Sono i tratti che, dopo l’ondata del “pensiero unico”, la sinistra ha perso, inseguendo l’avversario sul suo terreno e non riuscendo ad opporre la “propria” autonoma visione del mondo e dei nuovi rapporti economico-sociali. È finita che l’operaio si è rivolto a Salvini e che la gente si è mossa ad ingrossare la protesta anti-establishment del Movimento 5Stelle della prima ora. E, nel più vasto contesto internazionale, i forgotten men (i “dimenticati”) della Rust Belt hanno scelto Trump e non la democratica Hillary Clinton.
Nel rapido volgere di questa legislatura abbiamo sperimentato l’alleanza Lega-5Stelle, e l’agitarsi confuso di spinte antieuropeiste in salsa populista, poi arenatosi sulle spiagge del Papeete. Abbiamo sperimentato la virata dei 5Stelle verso una rotta europeista: dall’appoggio ai gilet gialli il Movimento è passato all’appoggio a Ursula von der Leyen, saldando il suo voto a quello di Forza Italia (famiglia Partito popolare europeo) e a quello del Partito democratico (famiglia Socialisti e democratici) e così candidandosi a diventare interlocutore politico delle forze europeiste. Di qui l’avvicinamento alle posizioni del Partito democratico, considerata l’impraticabilità del rapporto con Forza Italia. Intanto, pur mantenendosi ovviamente fermo il suo valore “nominale” in termini di truppe parlamentari, il Movimento 5Stelle ha via via perso “potere d’acquisto” in termini elettorali: alla gente cominciava a “girare la testa”, e ad un nutrito drappello di parlamentari e militanti, che coltiva ancora il mito originario e fondativo, la grisaglia stava stretta. È andata maturando la prospettiva di un’alleanza programmatica e, addirittura, organica tra Partito democratico e Movimento 5Stelle. Da un lato, la c.d. vocazione maggioritaria del Partito democratico ormai da qualche tempo aveva perso consistenza; dall’altro, il magro bottino elettorale raccolto nelle elezioni del 2019-2020 dal Movimento 5Stelle, ne aveva confermato lo scarso “potere d’acquisto” e, per molti versi, aveva “controllato” l’ardore scapigliato dei grillini “duri e puri”, arenando la prospettiva di fare del Movimento il terzo polo dello schieramento politico. La tornata elettorale aveva fatto addirittura registrare un riflusso dell’elettorato grillino verso il Partito democratico che, in definitiva, di quell’elettorato è in larga parte il naturale recinto.
L’esperienza di governo con il Partito democratico offriva al Movimento 5Stelle l’occasione per aggiornare la rotta originaria e per ridefinire, nel quadro di un nuovo orizzonte politico-culturale, la propria identità, non più in chiave naïf e velleitaria, rispetto ai grandi temi del capitalismo, del mercato, del ruolo dello Stato, dell’Unione (politica) europea, dello sviluppo, della produzione, della distribuzione della ricchezza, dell’uguaglianza e della libertà. E anche il Partito democratico, tornato al governo, avrebbe potuto maturare un’analisi politico-culturale specie in un momento in cui il mondo ha davanti a sé la sfida della transizione ecologica, la sfida cioè di un nuovo paradigma di sviluppo costruito intorno a nuove forme di energia. L’energia: sempre alla base delle grandi svolte dell’umanità fin dalla scoperta del fuoco.
Conte, pur tentato di giocare in proprio, poteva sembrare il federatore dell’alleanza. Portato dentro Palazzo Chigi dai 5Stelle, è riuscito, tuttavia, a conquistarsi un profilo autonomo nel suo secondo gabinetto, muovendosi in modo abile al di sopra delle parti senza entrare nel loro dibattito interno e dando mostra di essere concentrato sui dossier e sui problemi. E di certo non ce n’erano pochi.
Il governo Draghi, come ho avuto occasione di scrivere su queste colonne, ha disarticolato i giochi, facendo esplodere le debolezze e le fragilità del Movimento 5Stelle e del Partito democratico. Partiti, come Lega e Forza Italia, all’opposizione, sono entrati in maggioranza con una forza d’urto maggiore di quella che sul piano nominale hanno in termini di rappresentanza parlamentare. La Lega, forte del suo radicamento territoriale e sociale nella bruma della provincia settentrionale dove si muove il ceto produttivo, ha riacquistato nuovo spolvero, e, nel gioco delle parti tra Salvini (che urla alla piazza per portare in cascina il volatile voto d’opinione) e Giorgetti (impegnato nei dossier che contano per la base di riferimento), di fatto si accredita addirittura come forza moderata.
Il governo Draghi, impegnato a governare la pandemia e i fondi europei nel tentativo di portare l’Italia sul binario della ricostruzione e della crescita, ferma il gioco e, mentre porta la palla al centro, offre ai partiti l’occasione di ripensarsi culturalmente, prima che politicamente, e di darsi, quindi, un’identità di fronte ai grandi temi di cui ho detto.
È di questi giorni la proposta di Gaetano Quagliariello di un intervento “chirurgico” sugli artt. 92, 94 e 95 della Costituzione diretto ad introdurre nel nostro sistema, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, la c.d. sfiducia costruttiva e a fare del Presidente del Consiglio dei ministri il Capo del governo che nomina e revoca i ministri, piuttosto che il primus inter pares. Non più crisi al buio: chi voglia sfiduciare il governo, deve presentare una mozione di sfiducia che indichi il nuovo governo alle stesse Assemblee a camere riunite che hanno dato la fiducia. A prescindere dal merito della (non del tutto nuova) proposta, su cui vanno ovviamente fatte attente riflessioni anche con riguardo al sistema elettorale, un dato è certo: occorre dare lungimiranza, prospettiva, strategia ai governi. Obiettivi irraggiungibili senza stabilità. E senza stabilità avremo sondocrazia, non democrazia. E, con la sondocrazia, partiti e leader impegnati a rincorrere sondaggisti e ad abbozzare politiche ad horas, più che a elaborare contenuti politico-culturali e prospettive strategiche intorno a cui costruire identità solide.
*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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