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dopo la sentenza

‘Ndrangheta stragista, Graviano ricorre contro l’ergastolo

Il difensore del boss del quartiere Brancaccio chiede di rinnovare l’istruttoria dibattimentale. «Illogiche le deposizioni dei pentiti»

Pubblicato il: 07/03/2021 – 12:14
‘Ndrangheta stragista, Graviano ricorre contro l’ergastolo

REGGIO CALABRIA Il boss del quartiere Brancaccio di Palermo Giuseppe Graviano ha fatto ricorso in Appello contro la sentenza emessa lo scorso luglio dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel processo “‘Ndrangheta stragista” in cui è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’agguato consumato il 18 gennaio 1994 sull’autostrada, all’altezza dello svincolo di Scilla, in cui morirono due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Stando all’impianto accusatorio, che poggia le sue basi sulle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, quell’attentato rientrava nella strategia stragista di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. Così come gli altri due agguati contro i carabinieri avvenuti in Calabria a cavallo tra il ’93 e il ’94 e per i quali Graviano è stato condannato assieme a Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della
cosca Piromalli di Gioia Tauro.

«Illogiche le deposizioni dei pentiti»

Il ricorso è stato presentato ieri dall’avvocato Giuseppe Aloisio che alla Corte d’Assise d’Appello ha chiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e l’assoluzione del boss siciliano. In particolare, il difensore ha contestato l’assenza di «riscontri individualizzanti» in merito alle dichiarazioni dei pentiti.
«È evidente – scrive l’avvocato Aloisio – come l’apporto dichiarativo dei collaboratori, in particolare da Spatuzza, Villani e Lo Giudice, caratterizzato dall’incostanza e dalla illogicità delle propalazioni, non abbia fornito al compendio probatorio alcun contributo dimostrativo, nell’ottica della colpevolezza e quindi del ruolo di mandante del Graviano in merito agli attentati reggini consumati ai danni dei carabinieri».
Secondo il difensore, infine gli elementi emersi nel corso del processo di primo grado «non potevano indurre la Corte ad affermare la penale responsabilità dell’imputato “oltre il ragionevole dubbio”».

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