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processo “grimilde”

‘Ndrangheta in Emilia Romagna, il gup: «Dal 2016 la situazione non appare cambiata»

In abbreviato sono state condannate 41 persone. Uno di questi offese un vigile costringendolo a strappare una multa

Pubblicato il: 08/03/2021 – 15:04
‘Ndrangheta in Emilia Romagna, il gup: «Dal 2016 la situazione non appare cambiata»

BOLOGNA Nel 2016 Brescello è stato il primo Comune nella storia dell’Emilia-Romagna ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose. Ma a distanza di qualche anno «la situazione non appare cambiata, almeno nelle sue manifestazioni spicciole esteriori, dato che anche all’attualità la polizia municipale di Brescello non fa la multa in caso di sanzioni stradali, tipo divieto di sosta, agli appartenenti della famiglia Grande Aracri».
E’ quanto si legge in un passaggio delle oltre 1.400 pagine della sentenza del processo di ‘ndrangheta “Grimilde”, chiuso a ottobre in abbreviato con 41 condanne e il riconoscimento dell’associazione mafiosa. Nella sentenza si ricostruisce un episodio, raccontato in un interrogatorio a ottobre 2019, di offese a un vigile con una multa strappata. «Se ne ricava – sintetizza il gup del tribunale di Bologna Sandro Pecorella – che almeno a Brescello e nel 2019 la cosiddetta “sindrome di Grimilde”, che dà il nome al processo è ancora in azione: la società non vuole guardarsi allo specchio per non essere messa di fronte alla realtà».

L’azienda “Riso Roncaia”. «Così la ‘ndrangheta si infiltra nell’economia nazionale»

Il caso dell’azienda Riso Roncaia, al centro del processo Grimilde è emblematico di come agisce la criminalità organizzata al Nord: «così la ‘ndrangheta si infiltra nell’economia nazionale, anche in attività imprenditoriali prestigiose e affermate”, scrive il gup Sandro Pecorella nelle motivazioni della sentenza.
La vicenda, per il giudice è «uno spaccato dinamico della vita dell’associazione a delinquere» di tipo mafioso, ma allo stesso tempo «solo una delle punte dell’iceberg che viene fuori e sulle quali l’inchiesta ha gettato un luminoso faro». La ditta mantovana chiese aiuto, in una situazione di difficoltà finanziaria, ai fratelli Giuseppe e Albino Caruso, il primo all’epoca era un esponente di FdI ed ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, oltre che funzionario doganale. I due fratelli, arrestati a giugno 2019, sono stati condannati rispettivamente a 20 anni e a 12 anni e 10 mesi, considerati «il gancio che ha portato il faro degli investigatori sui Grande Aracri di Brescello», i boss di cui erano a disposizione.
L’intervento della ‘ndrangheta sulla Riso Roncaia rappresenta l’esempio dell’espansione «di un sodalizio dentro un’attività imprenditoriale, in palese crisi finanziaria», attraverso l’offerta e poi la messa in atto di alcuni interventi (tutt’altro che legali) a favore della società, così da accreditarsi e acquisire un diritto di credito, da riscuotere in denaro o in beni, contribuendo ad aggravare le già gravi problematiche finanziarie. Con l’obiettivo finale di «offrire l’aiuto “estremo” ai soci ormai consumati dai debiti: il finanziamento, l’immissione di soldi con proventi dai delitti della consorteria mafiosa per superare la crisi pretendendo, in cambio, naturalmente, il subentro da patte del sodalizio» come socio occulto, ormai proprietario di una percentuale delle quote sociali.

«A Brescello, anche dopo lo scioglimento, hanno denunciato in pochi»

«Nonostante le inchieste per mafia abbiano ampiamente parlato di Brescello, nel paesino raccontato da Guareschi (5.500 abitanti, 1.700 dei quali di origine calabrese) a denunciare o a parlare apertamente sono stati in pochi». Lo scrive il Gup Sandro Pecorella, nella sentenza del processo Grimilde su un’associazione di tipo ‘ndranghetistico con epicentro proprio nella provincia di Reggio Emilia. «Emblematico in tale senso – prosegue il Gup citando la relazione della commissione d’inchiesta che portò, nel 2016, allo scioglimento dell’amministrazione comunale per mafia – l’atteggiamento del personale del Comune di Brescello, apparso ancorato a quella che sembra essere una posizione di inconsapevolezza, in taluni casi mista a timore, verso l’argomento criminalità organizzata».
Per Pecorella se qualcuno non sapesse prima di leggere la relazione «che si tratta di un vero atto amministrativo, potrebbe pensare che nasca dalla fantasia di qualche autore di fantascienza ucronica e distopica che raffigura la concreta vita dell’Italia asservita ad un malaffare che arriva anche alle minutissime cose della vita di tutti i giorni». E nel descrivere la penetrazione della criminalità organizzata, il giudice sottolinea come la ‘ndrina dei Grande Aracri, «in linea con le moderne strategie sociali della ‘ndrangheta, faceva in modo di accreditarsi a Brescello attraverso comportamenti apparentemente innocui, entrando illecitamente in punta di piedi nelle articolazioni economiche e sociali della città, cercando di scongiurare così reazioni di allarme sociale prefigurabili in presenza di episodi violenti e eclatanti». Nella sentenza in abbreviato Salvatore Grande Aracri, figlio del boss Francesco, è stato condannato a 20 anni, mentre il padre e il fratello sono stati rinviati a giudizio a Reggio Emilia.

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