CATANZARO C’è un’altra spada di Damocle che pende sul futuro dell’economia calabrese ed è strettamente collegato al processo in atto da alcuni decenni nella regione: l’abbandono progressivo dei terreni agricoli. Un fenomeno diffuso, per la verità in tutta Europa, ma che vede la Calabria tra le aree in cui questo rischio è particolarmente accentuato. E lo sarà ancor di più nel futuro se non saranno adottate contromisure quantomeno per rallentare il fenomeno che colpisce nel vivo uno dei settori tradizionalmente più caratterizzanti dell’economia calabrese: l’agricoltura. Lo spaccato emerge dal report “La sfida dell’abbandono dei terreni dopo il 2020 e possibili misure di attenuazione” realizzato dal Centro di ricerca del comitato AGRI del Parlamento europeo che segnala appunto come la Calabria rientri tra le regioni del Vecchio Continente dove lo spopolamento dei campi acquisisca un valore da “bollino rosso”.
Secondo questo studio, circa il 30% delle zone agricole dei territori europei (56 milioni di ettari) è soggetto al fenomeno dell’abbandono dei terreni agricoli che entro il 2030 potrebbe interessare 5 milioni di ettari o il 2,9% della Superficie agricola utilizzata (Sau) che è pari a 173 milioni di ettari. Nella cartina delle aree a rischio elevato compare appunto la Calabria assieme ad altri territori dell’Unione europea dove, sempre secondo gli analisti del dipartimento tematico per le misure strutturali e le politiche di coesione del Parlamento europeo, il fenomeno colpirà sia i terreni coltivabili sia le aree con colture permanenti.
Un fenomeno che sta interessando prevalentemente le aree interne che per caratteristiche geografiche e sociali stanno subendo le maggiori trasformazioni in questa direzione negativa. «La prevalenza di basso e alto rischio di abbandono della terra per seminativi, colture permanenti e pascoli – sottolineano gli analisti di Bruxelles in questo senso – non dipende particolarmente dal tipo di copertura del suolo, ma piuttosto dalla geografia». Considerando che le aree interne ricomprendono il 78% dei comuni calabresi e il 79% dell’intera superficie della regione, si intuiscono le ragioni per le quali pongono la Calabria in una condizione di vedere accrescere ancor di più le percentuali di abbandono dei terreni agricoli. Con effetti pesantissimi sia sulla tenuta socio-economica dell’intera regione che sulla sua qualità ambientale.
L’esodo massiccio dalle aree coltivate interne contribuisce in maniera esponenziale all’innalzamento del livello del dissesto idrogeologico e della desertificazione dei territori ma anche alla perdita di biodiversità.
Un fenomeno quello dell’abbandono dei campi che sembra quasi un evento ineluttabile per la regione se si leggono i dati degli ultimi decenni e che appunto interessa soprattutto la zone interne. Secondo i numeri forniti dall’Istat, dal 1971 ad oggi la Superficie agricola utilizzata (Sau) è diminuita in Calabria del 25% nelle aree periferiche e ultra periferiche mentre la flessione nelle zone intermedie è stata pari al 21%. Tutto questo nonostante gli interventi – spesso solo annunciati sulla carta – e finanziati con miliardi di euro provenienti dalle varie programmazioni regionali sostenuti con risorse europee: si calcola 17 miliardi. Ad iniziare dai fondi della Politica agricola comune (Pac) declinati attraverso anche il Piano di sviluppo rurale delle varie regioni – ovviamente Calabria compresa – che ha proprio nel ripristino dell’uso di terreni agricoli in disuso così come la tutela della biodiversità tra i requisiti fondamentali per ottenere finanziamenti.
Ed è lo stesso paper realizzato dal Centro di ricerca del comitato AGRI del Parlamento europeo ad inchiodare alle proprie responsabilità gli amministratori locali per il depauperamento progressivo del patrimonio agricolo. A proposito delle cause che hanno generato e continuano a produrre il fenomeno, scrivono, infatti che «nonostante l’ampia gamma di fattori i problemi di gestione e l’adattamento strutturale rimangono i principali fattori trainanti che influenzano l’abbandono della terra». In altre parole l’indice di Bruxelles resta puntato sulle cattive politiche di gestione dei territori. Nonostante l’enorme mole di risorse redistribuite proprio per affrontare questo problema e cercare di superare soprattutto in regioni come la Calabria il gap con altre aree ricche dell’Europa.
Soldi che sono finiti per alimentare solo interventi a pioggia senza centrare il principale obiettivo: recuperare le aree interne dal rischio di abbandono e rilanciare pienamente la competitività dell’agricoltura calabrese. Ne è convito Franco Gaudio, ricercatore della postazione regionale della Calabria del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) – Centro di ricerca politiche e bioeconomia di Rende.
Il fenomeno dell’abbandono dei terreni agricoli ha assunto dimensioni allarmanti, soprattutto in Calabria. Stando all’ultimo studio realizzato dal centro ricerche del Parlamento europeo è tra le regioni che nei prossimi anni risentirà ancora più di questo fenomeno. Dal vostro osservatorio la situazione è così grave?
«Si, senza dubbio. Il fenomeno dell’abbandono dei terreni agricoli è allarmante in Italia, ma nell’intera comunità europea. Lo studio a cui si fa riferimento segnala che nel 2030 circa il 30% delle aree agricole (56 milioni di ettari) presentano un rischio moderato di abbandono. E l’Italia è tra i paesi comunitari (sono 13 su 27) a più alto rischio. All’interno dell’Italia la Calabria è tra le regioni che presentano fenomeni di abbandono allarmanti. Negli ultimi trent’anni nonostante enormi risorse economiche tra quelle comunitarie e regionali (circa 17 miliardi di euro) l’agricoltura presenta indicatori preoccupanti, insieme ad altri abbastanza incoraggianti (aumento dei prodotti di qualità). Come avviene in Italia dove le aziende agricole e la relativa superficie diminuisce, anche in Calabria assistiamo negli ultimi trent’anni ad una diminuzione degli addetti, delle aziende (-44%), della superficie totale (-46%) e della Sau (-35%). Ma mentre questa diminuzione per il nord Italia rappresenta una ristrutturazione delle aziende che aumentano le loro dimensioni medie; al sud e in Calabria le dimensioni medie restano uguali per cui assistiamo a veri e propri fenomeni di abbandono soprattutto nelle aree interne».
Quali sono le cause principali che stanno provocando l’abbandono delle aree coltivate e coltivabili nella regione?
«Sono diverse le cause. Sono attribuibili ad aspetti agronomici (calo della fertilità del suolo), ma anche sociali (emigrazione e spopolamento delle aree interne e abbandono degli anziani agricoltori senza successione) ed economici (globalizzazione dei mercati, delle materie prime e calo della redditività agricola). C’è anche da sottolineare che negli anni si è assistito ad una differenziazione territoriale dell’abbandono delle terre coltivabili che hanno registrato alcune eccezioni. Nelle aree rurali ricche, quali per esempio la piana di Sibari e le altre poche zone pianeggianti della Calabria, abbiamo assistito ad un ritorno alla terra da parte dei giovani agricoltori. Ma sono casi, seppure incoraggianti, ancora isolati. Mentre il fenomeno dell’abbandono sta progredendo ed interessa in maniera cospicua le aree più interne, quelle appunto più povere dove è in atto da tempo lo spopolamento. Sono fette vastissime di territorio calabrese ».
E gli effetti incideranno su uno dei principali settori dell’economia calabrese: l’agricoltura. Con contraccolpi ancor più pesanti sulla tenuta socio-economica delle aree interne?
«Sicuramente l’economia calabrese delle aree interne subirà un’ incidenza negativa da questo fenomeno. Non bisogna dimenticare che, in alcune aree calabresi, l’occupazione agricola incide per più del doppio rispetto a quella media regionale e nazionale. E molte famiglie delle zone interne hanno un reddito per la maggior parte derivante dall’agricoltura solo parzialmente integrato con un’attività lavorativa part time in altri settori. Complessivamente l’agricoltura in Calabria riveste una notevole importanza in termini economici, occupazionali e sociali. Una famiglia su sette ha legami con la terra e la produzione che ne ricava anche se di sola sussistenza incide pesantemente su un reddito medio basso che è circa la metà di quello medio nazionale. Ma la preoccupazione riguarda anche la competitività del sistema agricolo calabrese dato che la carenza di ricambio generazionale fa subire all’agricoltura, in assenza di giovani, la mancanza di innovazione tecnologica e organizzativa che si traduce in aziende sempre meno competitive sul mercato. Inoltre sempre le aree interne rischiano in futuro un maggiore isolamento. Visto che, ad esempio, gli stessi servizi pubblici già carenti in queste zone potrebbero subire ulteriori tagli, inevitabili».
E c’è anche il tema ambientale a rischio. L’abbandono di aree agricole ha contraccolpi sull’equilibrio dei territori con annessi rischi idrogeologici e sulla mitigazione dei cambiamenti climatici?
«Certo. In un territorio fragile sotto il profilo idrogeologico come quello italiano, e ancora di più come quello calabrese, composto in gran parte da superficie collinare e di montagna, l’abbandono delle terre che consegue alla cessazione dell’attività da parte dell’agricoltore comporta il venir meno di un presidio del territorio. Ma c’è di più. Oggi la ruralità non significa solo agricoltura, ma rappresenta un sistema ben più articolato, come realtà territoriale che comprende un insieme di valori sociali, culturali ed economici. Una visione nuova che sta incidendo sugli attuali orientamenti della politica dell’Unione europea dello sviluppo rurale. Tale evoluzione ha inizio con il rapporto “Il futuro del mondo rurale” di Delors (1988), sino alla “Dichiarazione di Cork” e ad Agenda 2000. La nuova politica agricola comune è sempre più orientata verso un’ integrazione delle azioni agricole, ambientali e territoriali. L’approccio che si va delineando è quello di inquadrare le problematiche agroforestali oltre i confini settoriali e di filiera, ma inserendoli in un contesto territoriale. Un nuovo modello che si presenta in tutti i documenti programmatici comunitari e nazionali a partire dal Pim (Piani integrati mediterranei) alla riforma dei fondi strutturali e alle misure di accompagnamento del Piano Mac Sharry e ai programmi Leader. È in questo contesto che viene fuori il ruolo multifunzionale dell’agricoltura che, oltre alle tradizionali funzioni produttive alimentari, presenta la responsabilità di salvaguardia dei valori funzionali, sociali ed economici del territorio in favore dell’intera comunità. Da qui si desume l’importanza di contrastare seriamente il fenomeno dell’abbandono della aree interne coltivabili».
Sono state attivate negli anni politiche per contrastare il fenomeno in Calabria?
«In Italia recentemente abbiamo assistito ad interventi legislativi al fine di favorire l’accesso alla terra da parte soprattutto dei giovani, con particolare attenzione alle terre incolte e abbandonate. Le “banche della terra” (è stato istituito dalla legge 154/2016), ad esempio, sono uno strumento diretto a favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di terreni agricoli, al fine di perseguire una serie di obiettivi economici, sociali e ambientali. Il principale obiettivo dichiarato di questo strumento, gestito dall’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare), è quello di costituire un inventario completo della domanda e dell’offerta dei terreni e delle aziende agricole italiane, disponibili anche a seguito di abbandono dell’attività produttiva e di prepensionamenti, per operazioni di cessione e di acquisto. Mentre la prima Regione a disciplinare e rendere operativa la “banca della terra” è stata la Toscana con il fine dichiarato di favorire l’accesso dell’imprenditoria privata e, in particolare, dei giovani agricoltori ai terreni agricoli e forestali e valorizzare i terreni pubblici e privati attraverso un loro uso produttivo. Molte Regioni hanno, poi, seguito l’esempio della Toscana. Semplificando, la banca della terra si presenta come un inventario, aggiornato periodicamente, dei terreni agricoli e forestali disponibili per operazioni di affitto o di concessione. Alcune banche della terra comprendono anche aziende agricole pubbliche e private. In Calabria sono stati depositati disegni di legge per favorire l’occupazione e la creazione di aziende nel settore agricolo, mettendo a disposizione dei cittadini calabresi i terreni agricoli abbandonati e a vocazione agricola di proprietà della Regione Calabria (si stimano circa 10mila ettari) privilegiando l’imprenditoria giovanile. C’è anche una legge regionale (la n. 31 del 2017) che promuove interventi mirati a contrastare l’abbandono delle coltivazioni; per sostenere il ricambio generazionale in agricoltura e per rendere pubblico, entro il 31 dicembre di ogni anno, l’elenco dei terreni agricoli e a vocazione agricola di sua proprietà e degli enti strumentali da essa controllati. La legge regionale dispone che i Comuni provvedano al censimento dei terreni agricoli o a vocazione agricola appartenenti al proprio patrimonio. Una richiesta di impegno che nei fatti diviene inverosimile data l’atavica disattenzione degli enti locali verso il tema del monitoraggio delle terre pubbliche. Non sembra che i Comuni abbiano censito le terre. Così ad oggi l’attuazione di questa legge non ha avuto quegli effetti positivi che si era prefissata».
Tante risorse per la Calabria e scarsi risultati, cosa non ha funzionato?
«Perché ad ogni programmazione sono stati affrontati sempre gli stessi problemi, che si è tentato di risolvere non in maniera organica, circoscrivendoli e concentrandoli. Le somme a disposizione seppure notevoli non erano sicuramente congrue ad affrontare tutti i nodi strutturali di cui soffre l’agricoltura calabrese. Risorse che andavano dosate per far superare progressivamente la varie criticità che presenta il settore seguendo una strategia. Bisognava individuare le priorità e su queste intervenire massicciamente. Invece, si è cercato di dare risposte a tutti i problemi e a tutti gli operatori distribuendo a pioggia le risorse che alla fine sono risultate insufficienti per far compiere quel salto di qualità all’agricoltura calabrese».
La strategia intravista dall’Europa per rilanciare l’economia nell’ottica della Next generation Eu punta anche alla green economy con un’attenzione particolare all’agricoltura. La Calabria in questo senso potrebbe avvantaggiarsene?
«In passato la crescita economica dipendeva dall’uso delle risorse naturali, come se fossero illimitate. Oggi scienziati e cittadini propongono modelli economici diversi più rispettosi per l’ambiente. Anche l’Unione europea mira a condizioni di sviluppo più ecocompatibili mediante una migliore gestione delle risorse, strumenti economici rispettosi dell’ambiente, un sostegno all’innovazione, una più efficiente gestione dell’acqua e dei rifiuti e sforzi per promuovere un consumo consapevole e una produzione sostenibile. È necessario quindi riorientare l’economia verso un futuro che abbia queste priorità. Dobbiamo anche cambiare il modo in cui misuriamo la crescita economica. Servono indicatori diversi, oltre al Pil, che spesso può dare una visione falsata dei nostri risultati economici. Abbiamo bisogno di indicatori che mettano in evidenza anche l’uso corretto delle risorse naturali. Ora abbiamo una buona opportunità che viene dalla Next generation EU per ricostruire l’Italia e anche la Calabria. Occorre però che si tenga a mente alcuni aspetti nel Piano che il Governo si accinge a riscrivere: lo sviluppo economico va di pari passo con la coesione sociale. Per questo è necessario ridurre le disparità territoriali ancora presenti e lo sviluppo delle aree più svantaggiate deve essere un obiettivo del Piano. Non ci può essere sviluppo dell’Italia senza sviluppo del Sud. Allo stato attuale non ci sono certezze che si vada in questa direzione. Se viceversa si dovesse cambiare passo e se venisse posto al centro degli interventi programmati con il Recovery anche l’agricoltura delle regioni meridionali, sicuramente la Calabria avrebbe tanto da guadagnare». (r.desanto@corrierecal.it)
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