LAMEZIA TERME Una famiglia sterminata in quella che è considerata la più grande strage familiare mai avvenuta in Italia. Siamo a Buonvicino, piccolo centro della provincia di Cosenza. È il 19 novembre 1996 quando un carabiniere, Alfredo Valente, di stanza a Formia si presenta nell’abitazione dove l’ex moglie, Genoveffa “Genny” Salemme, era tornata a vivere insieme alla loro bambina di 5 anni, Alessandra, per stare vicina ai suoi genitori Raffaele Salemme e Marianna Amoroso, di 75 e 72 anni. Quella stessa sera, dopo la cena consumata con la sorella di Genny, Francesca, il marito, Luigi Benvenuto e i loro figli Fabiana e Marco, è Valente ad animare una discussione, sfociata poi nella strage. Il carabiniere inizia a sparare, 23 colpi di pistola che uccisero la moglie e poi tutti i parenti, sotto gli occhi dei tre bambini. Una di loro, Fabiana, figlia di Francesca, si aggrappa alla mamma e inizia a piangere e così Valente uccide anche lei, portando con sé la figlia Alessandra e Marco.
Una tragedia terribile, raccontata ora in un libro “Sangue del mio sangue” (Falco editore), scritto dalla giornalista Fabrizia Arcuri, nipote di una delle vittime, insieme al criminologo Sergio Caruso, in questi giorni nelle librerie e ricostruita su Vanityfair.it.
A raccontarla è uno dei superstiti di quella spaventosa strage, Marco Benvenuto, ora 28enne, e gestore di uno studio di arti grafiche e una paninoteca. «Sono entrato – racconta Marco a Vanityfair – e mi sono diretto verso la cucina e ho visto le macchie di sangue. A terra, sui muri. Anche i fori delle pallottole. Dopo quella notte, nessuno era più entrato in casa e sembrava di stare ancora sulla scena del crimine». Marco, infatti, qualche giorno è tornato in quella casa dopo tutti questi anni con la voglia di «pulire» quell’abitazione circondata da erbacce. «La notte che sono uscito da lì per l’ultima volta avevo tre anni. Eppure adesso sapevo, già prima di entrare, dove si trovava la cucina e dove le altre camere». «Di quella notte – spiega Marco – ricordo gli spari. Mi sembravano fuochi d’artificio. Di quella notte ho solo dei flash. Ricordo che ci fece salire in macchina e che portai con me un peluche. Era giallo e viola, ma durante il viaggio si sporcò di rosso, perché ero ferito. Forse, quando iniziò la sparatoria, ero in braccio a mamma. Forse lei mi protesse col suo corpo».
A delineare i contorni della strage di Buonvicino del 1996 è il criminologo Sergio Caruso. «Il fattore scatenante è stata una separazione non corrisposta. Genny voleva divorziare, il marito non ha accettato la sua decisione per una serie di motivi e ha dato la colpa alla famiglia di lei. Infatti, ha distrutto tutto il nucleo familiare dell’ex moglie, come se tutti loro avessero un ruolo nella separazione. Nelle lettere che scriveva dal carcere, Valente non ha mai chiesto scusa alla famiglia, ma all’Arma dei carabinieri sì». «Queste stragi non avvengono per un raptus – spiega ancora Caruso – nessuno si sveglia la mattina e uccide la moglie, la fidanzata, la famiglia all’improvviso. Qui parliamo di uomini che nutrono un odio profondo, un rancore che dura da anni, generato da conflitti, incomprensioni e, in alcuni casi, alimentato da disturbi e patologie psicologiche».
Marco Valente fu condannato a trent’anni. Ora è uscito ed è tornato in Calabria. Marco è però arrabbiato con lo Stato: «Dopo la strage – spiega ancora a Vanityfair – non c’è stato nessun supporto psicologico per noi sopravvissuti, nessun risarcimento. Va detto, comunque, che venticinque anni fa non esisteva neanche la parola femminicidio, non si pensava ai familiari delle vittime, a noi bambini. Però, è ovvio che quando uccidi la tua ex moglie e la sua famiglia, distruggi anche le vite di chi resta. Forse è arrivato il momento che le istituzioni si attivino. Devono farlo, e non solo per me, ma per tutti i bambini vittime di questa orribile violenza». (Foto GazzettadelSud)
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