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«Enrico Letta e la rifondazione del Pd»

«Si trova nella singolare condizione di avere in Parlamento una maggioranza composta di “ex renziani” e al proprio interno una maggioranza diversa»

Pubblicato il: 19/03/2021 – 11:29
di Antonio Mazza Laboccetta
«Enrico Letta e la rifondazione del Pd»


A comporre la faglia apertasi nel Partito democratico dopo le dimissioni di Zingaretti è stato chiamato Enrico Letta: nuovo segretario. Personaggio certamente autorevole della politica. Molto legato a Beniamino Andreatta (a lui ha intestato la Scuola di politica fondata nel 2015) – e, quindi, alla sinistra Dc -, è stato più volte ministro e, con Prodi al governo, ha ricoperto il delicato ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Dopo l’esperienza tra i Popolari della Margherita, è stato uno dei fondatori del Partito democratico, di cui, con Bersani segretario, ha svolto le funzioni di vice. Presidente del Consiglio nel 2013, da lì ad un anno è stato malamente disarcionato da Matteo Renzi, dopo e “nonostante” l’ormai celebre rassicurazione: “stai sereno”. Il gelido passaggio di consegne nel corso della tradizionale cerimonia della campanella ha segnato, per Enrico Letta, anche l’allontanamento dalla politica, volontario quanto si vuole, ma molto condizionato dall’impraticabilità delle condizioni politiche, avendo l’“agguato” trovato largo consenso, e anche supporto, all’interno del Partito. Letta ha scelto, quindi, il dorato esilio di Parigi, dove a partire dal 2014 ha preso a coltivare nuovamente la giovanile esperienza di professore universitario. E così ha insegnato nella prestigiosa Sciences Po (Istituto di studi politici) di Parigi. E da Parigi, dopo la chiamata al capezzale del Partito democratico, ha “twittato”: “Io ci sarò”, aggiungendo, tuttavia – quasi a voler marcare il proprio spazio – di avere le “idee molto nette e molto forti. Non arrivo con l’idea di vivacchiare, arrivo con l’idea di imprimere una svolta”. E che di svolta abbia bisogno il Partito democratico, non v’è alcun dubbio. Nel discorso che l’ha portato all’investitura, molto forte è stato il richiamo all’esperienza dell’Ulivo, nato
dall’assorbimento e, al tempo stesso, dal superamento di culture diverse, condotte in un’identità “altra”. Non ha disconosciuto il valore strategico delle coalizioni, ma alla “politica dell’alleanza” (con i 5Stelle) coltivata da Zingaretti, Letta ha anteposto l’esigenza di una solida costruzione del Partito democratico, cui, nella visione del nuovo segretario, spetta il centro della scena. Un passaggio, questo, che fa pensare
che il ruolo del federatore, in predicato a Conte prima del governo Draghi, debba competere al leader del Partito democratico. Difficile il compito del neo-segretario. Difficile la crisi che attraversa il Partito: si trova, al momento, nella singolare condizione di avere in Parlamento una maggioranza composta di “ex renziani” e al proprio interno una maggioranza diversa. A causa di un sistema elettorale che attribuisce al leader di
turno e, come ormai si dice, al suo “cerchio magico” il potere di comporre le liste e di scegliere i candidati da eleggere, il Partito democratico annovera oggi, in Parlamento, una maggioranza di “ex renziani”, numero più numero meno. Dico “ex” perché le imponderabili rotazioni nell’orbita dell’arco costituzionale, cui ci ha abituato il trasformismo nostrano, portano a repentini e spesso bruschi e rovinosi cambiamenti di casacca anche all’interno degli stessi partiti. In due parole, la maggioranza Pd in Parlamento è minoranza nel Partito. A meno che Letta non riesca ad imprimere la svolta di cui parla – che, a mio avviso, va letta come svolta politico-culturale intesa a dare identità e radicamento al Partito non sarà facile districarsi nella selva correntizia e sbrogliare la matassa. Non sarà facile muoversi tra i progressisti, di cui il segretario dimissionario, sospinto dal suo ideologo Goffredo Bettini, è alla guida dopo l’ultimo Congresso. Zingaretti ha detto chiaramente di aver lasciato il Partito, ma, al netto
dell’esperienza amministrativa come Presidente della Regione Lazio che continua, non la politica attiva. E nel Partito i progressisti trovano appoggio nell’area che fa capo all’attuale vice-segretario e ministro Andrea Orlando, esponente forte della compagine democratica. La componente di tradizione socialdemocratica si completa, ma in maniera molto critica nei confronti della (ex) segreteria Zingaretti, con i Giovani Turchi di cui l’alfiere è Matteo Orfini. Un’area (Energia democratica), che si potrebbe
definire più liberale, è quella che fa capo all’attuale sottosegretaria allo Sviluppo economico, Anna Ascani. Sconfina, poi, in un territorio presidiato da Graziano Delrio e Debora Serracchiani nel quale soffia la stessa ispirazione. Più evanescente l’area di Maurizio Martina. Base riformista – cioè gli “ex renziani” che tali non vogliono sentirsi chiamare – guidata da Lorenzo Guerini, Luca Lotti, Andrea Marcucci, costituisce l’opposizione della maggioranza uscita dall’ultimo Congresso, ed è sempre stata la
spina nel fianco di Zingaretti. Il punto di saldatura di questa galassia è Dario Franceschini: forte della sua AreaDem, ispirata a valori che vengono dal cattolicesimo democratico, ha garantito il punto di equilibrio, e, con questo, la sopravvivenza e la navigazione della segreteria fino al momento di rottura che ha portato Zingaretti a “vergognarsi” del Partito, e a dirlo pubblicamente. Un’affermazione, come ha ben sottolineato Cacciari, di una gravità inaudita, ma non perché sia stata fatta, ma perché rappresenta un punto di non ritorno, la linea di demarcazione tra la dissoluzione e la rifondazione del Partito.
È evidente che vi sia bisogno di una rifondazione. Ben poco può fare il leader se il corpo del Partito non ne percepisce o, peggio, non ne vuole percepire l’esigenza, o, peggio ancora, non riesce, per incapacità politico-culturale, a leggere le nuove realtà e a darsi, quindi, una visione dei nuovi rapporti economico-sociali. Che debba muoversi dalla rilettura della realtà, non v’è dubbio. Tutta la sinistra occidentale, nel corso della sua lunga storia, è stata attraversata da due imponenti visioni: da un lato,
quella che aveva teorizzato e, in molti casi, applicato la collettivizzazione della proprietà dei mezzi di produzione e la pianificazione generale, dall’altro quella che aveva cercato di modificare dall’interno i meccanismi del modello capitalistico e del mercato attraverso l’innesto, nelle strutture private di produzione, dell’intervento statale e dei sistemi di welfare. Due visioni che fanno rispettivamente capo alla cultura comunista e a quella socialdemocratica (riformista). Negli anni ’90 del secolo scorso, anche
in Italia le due visioni sono state investite dall’ondata delle privatizzazioni delle partecipazioni statali, dalle montanti nuove concezioni del welfare, dalla scoperta della centralità dell’impresa come generatore di valore e di sviluppo economico e del mercato come migliore allocatore della ricchezza, dalla rivisitazione del ruolo dello Stato (non più imprenditore, ma regolatore). E, d’altronde, la Costituzione dei nostri padri costituenti è così capace di reggere e governare l’urto dell’evoluzione economico-sociale da consentire, al tempo stesso, nazionalizzazioni (penso, per esempio, alla
nazionalizzazione dell’energia elettrica degli anni ’60) e privatizzazioni: è sufficiente, al riguardo, una scorsa agli artt. 41, 42 e 43 della Carta. E qui, per inciso, vorrei dire che la “bellezza” della nostra Costituzione imporrebbe di trattenere i tanti, forse troppi, conati di riforme costituzionali, non foss’altro perché a tali riforme è bene che attenda chi abbia dimestichezza del lavorio costituente dei nostri padri e chi sa leggere dentro la trama delle norme. L’ondata degli anni ’90 ha spiazzato la cultura della sinistra. Incapace di fare proprio il nuovo linguaggio, ha finito per scimmiottare le parole liberali e così per appannarsi progressivamente davanti al suo “popolo” che, costretto a scegliere tra l’originale e la copia, ha scelto l’originale. La risacca liberista ha mutato il paesaggio davanti al quale si trova oggi la sinistra. La finanziarizzazione dell’economia ha spazzato lo scenario dove si muoveva la vecchia manifattura, l’industria, l’economia
reale (basti guardare al volto di Torino, in cerca di nuova identità). Vasti processi di deindustrializzazione hanno ridisegnato i territori, costruendo nuove gerarchie di valori e di poteri. La classe operaia si è trasformata e, lasciandosi sospingere nell’indebitamento della società dei consumi, aspira a farsi classe media, a mutuarne gli stili di vita e a farli propri, mentre la classe media sprofonda in nuove povertà, che “concorrono” con quelle sospinte dai venti dell’immigrazione, ingrossate dalle “guerre a pezzetti”, come le chiama Papa Francesco, e dai saccheggi delle vecchie terre di conquista, cui non è estraneo l’Occidente coloniale. Alle tradizionali categorie del “lavoro” (subordinato ed
autonomo) si affiancano in modo quasi alluvionale i nuovi “lavori” (penso ai lavori della gig economy, che muove torme di lavoratori su piattaforme digitali, gettandoli nell’incertezza contrattuale e contributiva, in un sistema di tutele, per così dire, “flessibile”). Lavoratori che durano fatica a trovare voce e, ancor meno, i canali della rappresentanza democratica e sindacale. L’imponente sviluppo
tecnologico ha reso permeabili i confini degli Stati, troppo piccoli per governare i processi (divenuti) globali. La digitalizzazione dell’economia produce nuovi stili di vita, e con questi, nuovi valori. L’intelligenza artificiale si spinge ben oltre le colonne d’Ercole, ben oltre i limiti che la religione assegna alla conoscenza. Come travolta da incontenibile hybris, giunge a toccare, e scardinare, le radici dell’albero della conoscenza del bene e del male, ridisegnando i valori morali e le categorie etiche. L’evoluzione del costume, e più in generale, della società, trascina con sé un’ondata di nuovi diritti:
Rodotà parla di “Diritto ad avere diritti” (Laterza, 2013). Ma – v’è da chiedersi – qual è il limite al diritto di avere diritti? L’ecologia integrale di Papa Francesco (Laudato si’, 138) “esige […] di fermarsi a pensare e a discutere sulle condizioni di vita e di sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo. […] Le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. […] È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi
separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”. Dopo aver ereditato due secoli di cambiamenti straordinari – uso ancora le parole di Papa Francesco (Laudato si’, 102): “la macchina a vapore, la ferrovia, il telegrafo, l’elettricità, l’automobile, l’aereo, le industrie chimiche, la medicina moderna, l’informatica e, più recentemente, la rivoluzione digitale, la robotica, le biotecnologie e le nanotecnologie” di cui “è giusto rallegrarsi” – l’umanità si trova ora davanti ad un’immensa sfida: la transizione ecologica. Puntando ad un nuovo paradigma di sviluppo, addita una uova frontiera capace di coniugare in forme diverse uguaglianza e libertà: l’eterna endiadi intorno alla quale tutto il discorso politico “sinistra/destra” s’è costruito nel corso della storia. In conclusione, ho voluto indicare alcune delle sfide che attendono il Partito democratico. Intorno ad esse deve dare un’identità politico-culturale alle varie anime che lo percorrono. E di qui ritrovare il suo “popolo”, e pensare poi alle alleanze. Non sarà facile, e forse nemmeno breve, la traversata.

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