COSENZA «La costruzione di una classe politica adeguata alle sfide che le nostre società si trovano ad affrontare è cruciale». Ne è convinto Francesco Raniolo, ordinario di Scienza Politica, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (Dispes) dell’Università della Calabria. In una conversazione con il Corriere della Calabria Raniolo si sofferma sui temi dell’attualità politica nazionale e regionale nella sua qualità di coordinatore del corso “Impact”, un programma intensivo di formazione per giovani realizzato da Scuola di Politiche dell’ex premier e oggi segretario del Pd Enrico Letta.
Professore Raniolo, parliamo della Scuola di politiche all’Unical: come nasce e come si sviluppa un corso sicuramente unico nel suo genere nel Mezzogiorno? E cosa ricorda di quel giorno, caratterizzato dalla presenza dell’ex premier e attuale segretario del Pd Enrico Letta?
«Nello scorso febbraio all’Unical si è chiusa la seconda annualità della Scuola di politiche, anche questo anno abbiamo avuto oltre quaranta partecipanti, ospitati dal punto di vista organizzativo dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (Dispes). Quest’anno ovviamente il tutto si è svolto on line, nonostante ciò a sentire le reazioni dei partecipanti il “corso” ha ottenuto ottimi riscontri. Quello che organizziamo in Calabria si chiama Corso Impact e costituisce un corso di formazione breve che si aggiunge all’offerta più generale della Scuole di Politiche di cui è presidente Enrico Letta. La Sp ha una sede centrale a Roma, dove si eroga il corso lungo di durata annuale. Ci sono, poi, delle sedi decentrate (Milano, Torino, Cagliari e Cosenza). Quindi siamo, al momento, l’unica sede a sud di Roma che eroga il corso denominato Impact. Lo scorso anno il tema delle quattro settimane di riflessioni è stato Qualità della democrazia, cittadinanza e sviluppo del Mezzogiorno, questo anno non poteva che essere e L’Italia post-Covid: sintomi, transizioni, scenari. Il filo rosso che lega le iniziative calabresi è costituito dal contesto, il Sud, visto però nella sua dinamicità e interconnessione con il resto del Paese, l’Europa e il mondo globalizzato. In questo senso la nostra riflette effettivamente una visione “glo-cale” – globale e locale – della società. Ma non solo, la nostra attenzione è improntata ad un forte pluralismo epistemologico, le politiche pubbliche delle democrazie complesse riflettono e richiedono saperi molteplici, implicano l’incontro tra prospettive hard e soft del sapere, per dirla con il linguaggio aulico degli inizi del secolo scorso, un incontro tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”. Scienziati, sociologi, politologi, giuristi, storici, antropologi si confrontano con i nostri corsisti a partire da “problemi” sociali, da domande collettive in cerca di soluzioni. Parlare di politiche pubbliche, infatti, significa ripensare la realtà a partire dai problemi, intesi come scarto tra domande sociali e capacità di risposta. Le politiche sono delle rappresentazioni strategiche di problemi collettivi. Lo sguardo è sui bisogni e sulle sfide piuttosto che sugli attori: partiti, istituzioni, ecc..). Sulla loro interpretazione e percezione collettiva (si pensi alle immigrazioni). Si tratta di una rivoluzione copernicana, tanto più qui, in Calabria, nel nostro Mezzogiorno dove l’azione pubblica non sempre è vista come funzionale ai risultati che si vogliono raggiungere. La convergenza tra il Dispes e la Scuola di politiche era, quindi, nella natura delle cose. C’è voluta solo un’occasione costituita dall’intenzione del presidente Letta di allargare lo sguardo della Sp a sud di Roma e della intuizione del professor Gino Crisci allora Rettore dell’Unical, di suggellare l’incontro. Il nuovo Rettore, il professor Leone, ha poi ribadito tutto l’interesse del nostro ateneo. In tale quadro, la collaborazione con la Fondazione con il Sud e con la Svimez hanno fatto la qualità emergente. Il sodalizio poi si è consolidato con il lavoro entusiasta e volontario svolto negli ultimi due anni dai colleghi del Dipartimento, dell’Unical e dagli ospiti esterni che hanno abbracciato l’impresa. Prezioso è stato anche al lavoro di coordinamento svolto, assieme a me, dal professor Domenico Cersosimo. Senza di lui e le sue reti di contatti professionali e di ricerca la qualità dei nostri corsi sarebbe stata di sicuro inferiore. Alla fine, credo che il tutto si sia rivelato una grande opportunità per laureandi e neolaureati di ogni tipo di formazione».
Letta si è speso molto per la formazione di una nuova classe dirigente: è la mancanza di formazione una delle cause della sacra qualità della classe politica, nazionale e regionale?
«In un certo senso la strada tracciata da Letta è fino ad un certo punto un dejà vu. In fondo, la politica di massa ha sempre avuto un rapporto stretto con la formazione di quadri di partito o sindacali, di funzionari pubblici, di politici di professione ecc. Più, in generale dei cittadini. Norberto Bobbio, alla fine degli anni ’70, individua una delle “promesse non mantenute” della democrazia proprio nell’educazione del cittadino, nella sua formazione civica. Il grande economista austriaco Joseph A. Schumpeter, da parte sua, ricordava che una condizione necessaria per una buona democrazia era la qualità del “materiale umano”, dei parlamentari, dei politici di professione. In verità, non si tratta solo di trasmettere un saper fare – formazione in senso stretto – ma di trasferire valori, di favorire una socializzazione congruente – indottrinamento in senso ampio. A partire dal senso civico, dalla cultura della legalità, dalla tolleranza e apertura al dialogo. Storicamente, però, questa esigenza è stata interpretata in maniera molto diversa. Se accettiamo che ogni sistema politico si può scomporre in tre componenti base – lo Stato, la società politica e la società civile – il tipo di formazione, di “scuola di politica”, cambiano significativamente a seconda dell’egemonia o prevalenza dell’una o dell’altra istituzione. Con la formazione dello Stato moderno, che è un’impresa di apparati, prevale la formazione di tipo istituzionale volta a formare funzionai, burocrati, diplomatici. Qui troviamo la tradizione della cameralistica europea, ma anche la nascita delle nuove grandi Facoltà, appunto, di Scienze politiche (il plurale qui è d’obbligo). Nel 1880 negli Stati Uniti viene fondata la School of Political Science alla Columbia University di New York. Dieci anni prima, a Parigi nel 1871, veniva fondata L’Ecole libre des sciences politiques, oggi nota come Sciences Po, per inciso dove insegna anche Enrico Letta. In Italia, 1875, l’unificazione e la costruzione del nuovo Stato spinse Carlo Alfieri di Sostegno a fondare a Firenze la Scuola di Scienze Sociali che poi sarebbe diventata la Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri. In Inghilterra dovremo aspettare il 1895 per la nascita della London School of economics and political science. Tuttavia, in alcuni contesti più che in altri, ben presto il successo dei grandi partiti di massa avrebbe messo in secondo piano la componente istituzionale del sistema politico e favorito l’egemonia della “società politica”, fatta dai partiti e dalle relazioni tra di loro. I partiti di massa sono anche partiti popolari, delle classi subalterne e hanno necessità di formare e socializzare elettori, militanti e politici di professione prima esclusi dalla politica. Si tratta della funzione pedagogica dei partiti di integrazione di massa. Integrazione che sarebbe stata, però, ambivalente. Integrazione autoritaria, si pensi al ruolo del Partito Fascista che vede nella moltiplicazione delle facoltà di Scienze politiche nel nostro paese un’occasione per costruire i quadri del nuovo partito e dello Stato fascista. Ma i partiti di massa sono anche forieri di una integrazione democratica dei cittadini nella politica. Nel secondo dopoguerra, così, si sviluppa l’esperienza delle scuole di partito. Si pensi all’Istituto di studi comunisti, meglio conosciuto come Scuola delle Frattocchie, fondato già nel 1944. Ma anche all’esperienza degli altri partiti tradizionali dal Psi alla Dc, fino ad arrivare a Fi e al Pd. In questa fase storica che arriva fino agli anni ’90 anche la comunicazione politica, a partire dalla televisione, non è indipendente ma asservita ai partiti mastodontici, per dimensioni e controllo del potere. Con la crisi dei grandi partiti -“partiti etici” come li ha battezzati Remo Bodei – nel periodo che va dal 1989 (crollo del muro di Berlino) al 1992 (Tangentopoli) si assiste all’egemonia della “società civile”, cambia il ruolo e la fonte delle scuole di formazione politiche. Si pensi per tutti alla moltiplicazione di sedi diocesani e parrocchiali di formazione politiche tra gli anni ’80 e metà anni ‘90. Adesso cambia anche il bersaglio: non si tratta solo di formare un militante, ma di formare cittadini con una mentalità pragmatica, orientata ai problemi, appunto. Una scuola di politiche. Ma si assiste anche alla ripresa del protagonismo dei singoli cittadini che vedono nel web, nei social, in facebook o twitter o altro delle occasioni per farsi sentire, per esserci e prendere parte».
Letta sta riscuotendo un notevole gradimento: in che termini e quanto può davvero rigenerare il suo partito, anche nei territori come la Calabria?
«Per riprendere Schumpeter la qualità del “materiale umano” con il quale un leader deve avere a che fare è un problema di ogni formazione politica vecchia e nuova. Tanto più se il partito vuole essere un partito di opinione, programmatico. Tanto più nel Mezzogiorno, dove storicamente la politica è stata risucchiata da reticoli clientelari, se non da trame illegali. La costruzione di una classe politica adeguata alle sfide che le nostre società si trovano ad affrontare è cruciale. Ma questo fenomeno di formazione e reclutamento è strettamente associato alle reali opportunità di apertura del mercato politico-elettorale. In genere, i partiti nella misura in cui hanno successo e durano nel tempo producono un processo di chiusura del mercato politico, si formano vischiosità, interessi acquisiti, filiere di carriere e di aspettative. Non a caso il rinnovo intenso della classe politica corrisponde a periodi di crisi sistemica, nel dopoguerra (1946-48), negli anni ’90 (1994-96), nel 2013-18. Si tratta di elezioni critiche, per gli esiti dirompenti che comportano il crollo dei partiti tradizionali o al potere e la comparsa di nuovi leader, partiti, gruppi di elettori mobilitati e risentiti. Nel 1948 su cento deputati alla Camera poco meno di 60 sono “nuovi”, questa percentuale arriva al 70% nel 1994 e a circa il 65% nel 2018. In Parlamento arrivano più giovani, più donne, più neofiti. Da qui la questione della formazione ritorna ad essere cruciale. Se guardiamo all’intero paese e ai diversi livelli – regionali e comunali, ma anche europei – il quadro si fa magmatico. Se guardiamo ai singoli partiti, poi, le cose si complicano. Basti pensare, giusto perché con la sua domanda l’ha evocato, al Pd di Renzi e alla sua scalata ai vertici del partito dopo il 2013. Nei periodi ordinari queste dinamiche organizzative sono più vischiose e i canali di selezione tendenzialmente chiusi. Del resto, Letta arriva in un partito che non è il suo. I parlamentari riflettono ancora il ruolo di Renzi, gli uomini di partito il ruolo di Zingaretti. Insomma, destrutturare e ristrutturare un partito non è semplice, né a Roma né tantomeno a Cosenza. Anni fa Sartori diceva che gli equilibri politici sono “equilibri di volta”, l’organizzazione si tiene perché si sono diffuse e ramificate interessi e lealtà. Rimettere in discussione tale “tetto dei privilegi e della aspettative” è un problema complicatissimo per qualunque leader».
La Calabria si accinge a vivere una nuova stagione elettorale: come vede in generale il quadro politico nella regione? L’impressione è che in campo ci siano, a scontrarsi, una politica forse ancora legata a schemi ormai logori e un civismo forse troppo esasperato e populista…
«La tensione tra una “politica logora” e un “civismo esasperato e populista”. Mi sembra interessante, ma come tutte le dicotomie è oltremodo semplificatrice. Il punto rilevante mi sembra oggi quello che ho chiamato la “spirale del discredito” nel rapporto tra partiti e cittadini. Il sistema politico italiano è innervato da una sfiducia sistemica, parzialmente temperata dalla fiducia personale. L’orientamento specifico al candidato compensa la carenza di un orientamento diffuso al partito come istituzione, come impresa collettiva. Nadia Urbinati ha opportunamente individuato tre trasfigurazioni della democrazia: la democrazia del leader, la democrazia populista della partecipazione diretta, la democrazia epistemica, controllata dai tecnici, detentori di saperi esperti. Tre attori che con la pandemia hanno riacquistato salienza. Forse a scapito della qualità della democrazia nel suo complesso».
Ultima domanda, professor Raniolo. Uno dei dati che hanno negativamente caratterizzato le ultime elezioni in Calabria è l’astensionismo: da cosa nasce questo fenomeno, certo non slegato dalle difficoltà della politica calabrese a essere credibile? E come invertire il trend?
«Certo non è una domanda semplice per chiudere la nostra conversazione. Provo a tagliare con l’accetta. Partiamo da un dato: tutte le indagini empiriche e le analisi mostrano la Calabria fanalino di coda nella partecipazione, nel civismo e capitale sociale. Una democrazia senza demos, informato, sensibile che si sente parte e prende parte, è una contraddizione in termini. La democrazia digitale al riguardo pone almeno due problemi: aumenta la forbice tra chi può e non può partecipare. Il “divario digitale” lascia indietro anziani, gli appartenenti alle classi più povere, i marginali in genere (pensate agli immigrati). Inoltra, aumenta il rischio della manipolazione della partecipazione diretta on line. Meno quantità, ma anche meno qualità della partecipazione e quindi della democrazia. Ecco, questo è il problema del Mezzogiorno e della Calabria. Le soluzioni non possono che arrivare da una felice convergenza tra domanda e offerta, dal basso e dall’alto. Cittadini e istituzioni naturali della socializzazione a partire dalla famiglia e dalla scuola, e dall’associazionismo che si fanno portatori di micro-cambiamenti culturali e che poi diffondendosi potranno avere un effetto moltiplicatore. Ma anche una maggiore responsabilità della classe politica e dirigente, delle istituzioni, di realizzare autentiche opportunità di partecipazione, politiche di attivazione, di contrasto alla illegalità. La democrazia cammina sulle gambe degli uomini, certo, ma anche la viabilità delle strade che essi percorrono è importante». (a. cant.)
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