Leggendo l’ultimo saggio dello storico del fenomeno mafioso Enzo Ciconte “L’assedio”, sottotitolo “Storia della criminalità a Roma da Porta Pia a Mafia Capitale” (Carocci editore, pagine 295, euro 19) viene in mente il famoso titolo di copertina sul primo numero dell’Espresso, nel dicembre 1955, “Capitale corrotta, nazione infetta” , che annunciava l’inchiesta, all’interno del giornale, dello scrittore Manlio Cancogni, con cui si denunciava il dilagare della speculazione edilizia a Roma, facendo emergere, nel cuore e nel ventre della città eterna, un quadro corruttivo di una gravità inaudita. Più di sessantacinque anni dopo, questo nuovo libro di Ciconte, scrive una sentenza “letteraria” definitiva sulla storia corruttiva e criminale di Roma, ancorché, come vedremo, per la giustizia italiana, precisamente per la Cassazione, la mafia a Roma c’è, ma non si chiama mafia. Continuerà a chiamarsi “criminalità”, e la parola “mafia”, dal punto di vista giudiziario, resterà una prerogativa di territori ricadenti in Sicilia, Calabria e Campania. Il che non significa che a Roma l’esistenza e l’azione delle strutture criminali sia rimasto come in passato nascosta dalla nebbia protettiva in cui l’avvolgevano istituzioni, sistema politico, cartelli dell’economia e segmenti di società; questo no. Ma la definizione di mafia al sistema criminale della Capitale non si addice. Nonostante l’inchiesta “Mafia Capitale”, che fece molto scalpore, dimostrasse tutto il contrario. Ma Roma è Roma e nonostante il cambio di passo nelle inchieste della magistratura, innescato dal procuratore Giuseppe Pignatone, quel che è caratteristica del modello mafioso: violenza, terrore, estorsioni, riciclaggio, spaccio di droga, corruzione, omertà, illegalità a Roma è “romanzo criminale”, ma non mafioso. Ciconte, che tra gli storici italiani del fenomeno mafioso è il più preparato e autorevole, ha scritto questo libro per smentire l’assunto della “non mafia” a Roma. Fa vedere, riscrivendo la storia a partire da ciò che è accaduto dopo la breccia di Porta Pia, che la Roma criminale esiste, che il potere mafioso è ben radicato, e che non è possibile cavarsela col negazionismo, o tutto al più ricondurre la questione mafia a una questione puramente criminale. Per molto tempo si è infatti minimizzato dicendo che a Roma la mafia non esiste, mostrando ritrosia a riconoscere l’esistenza del problema, “quasi che il solo parlarne significasse sporcare l’immagine della città eterna” dice Ciconte. Eppure, immergendosi nei mari tempestosi della società romana, come fa l’autore de “L’assedio”, ci si accorge che oltre a mafia, ‘ndrangheta, camorra che sono detentrici delle quote di maggioranza della società capitolina del malaffare, c’è il “prodotto locale”, anzi il “prodotto Capitale”.
Che poi la mafia di Roma sia una proiezione delle mafie che hanno assediato la capitale, soprattutto a partire dal dopoguerra, è un problema di forma, ma non di sostanza. Ciconte scavando tra documenti, archivi, processi, cronache, fa luce sul groviglio di interessi e sull’anima oscura della capitale d’Italia; scandaglia il fondo oscuro, melmoso, indicibile, nel quale s’infangano (e infangano la città eterna) criminali, uomini dell’eversione nera, della massoneria, dei servizi, mafiosi delle mafie storiche, in un miscuglio che per i giudici della Cassazione non è mafia. Ma se non è mafia – si chiede Ciconte – che cos’è? Il racconto di “L’assedio” attraversa la storia di Roma partendo dall’Unità, per poi proseguire con le epoche e le storie dei mutamenti più significativi della vita della capitale, che registrano l’affacciarsi di importanti presenze mafiose, di Cosa nostra, Ndrangheta, Camorra, fino a giungere alla scoperta di quel “Mondo di mezzo” scoperchiato dall’inchiesta del procuratore Giuseppe Pignatone, che fece scalpore, coinvolgendo il mondo politico amministrativo della Capitale. Ma Ciconte non si limita a narrare le “gesta” del segmento criminale romano; va oltre e racconta della corruzione legata alla speculazione edilizia e alla sfera economico-finanziaria, rivela quel tanto che basta per far capire che non solo c’è la mafia Capitale ma, ancora più preoccupante per il sistema Paese, c’è la Corruzione Capitale. E tutto sommato arriva alla stessa conclusione dell’Espresso del 1955 – allora diretto da Arrigo Benedetti – “Capitale corrotta nazione infetta”.
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