REGGIO CALABRIA «La corruzione nuoce gravemente alla salute». Lo aveva scritto Alberto Vannucci, professore dell’Università di Pisa e tra i maggiori esperti del fenomeno, in un lavoro dove evidenziava i potenziali (nonché concreti) danni indotti al sistema sanitario dalla contaminazione di dirigenti, funzionari e operatori. Un assunto che sembra trovare incarnazione nelle vicende dell’Asp di Reggio Calabria, sciolta da marzo 2019.
La relazione, all’epoca, aveva evidenziato «la presenza di organizzazioni criminali nelle pubbliche Istituzioni favorita da soggetti che hanno messo a disposizione il loro ruolo professionale nell’ottica di un totale asservimento della funzione pubblica».
Lo step successivo – sebbene risalente nel tempo ed ascritto a condotte del biennio precedente il 2018 – lo si ritrova nell’indagine “Chirone” coordinata dalla Dda di Reggio Calabria.
La procura distrettuale ricostruisce in parte quel sistema alimentato da un vero e proprio «controllo operato dalla cosca Piromalli per il tramite di esponenti della “famiglia” Tripodi» che operava soprattutto nel comparto della distribuzione di prodotti medicali attraverso aziende loro riconducibili e divenute oggetto di sequestro per un ammontare complessivo di 8 milioni di euro.
Per oliare questo sistema e favorire le società coinvolte, un elemento rimarcato dagli inquirenti è quello della «corruzione di medici ed infermieri, lautamente remunerati» attraverso dazioni o promesse di denaro o regalie di varia natura.
Condotte che è stato possibile ricostruire grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia oltre alle intercettazioni di alcuni dei 14 soggetti attinti delle misure cautelari oggetto dell’ordinanza firmata dal gip Valerio Trovato.
Nelle sue conclusioni inerenti il reato associativo, proprio il gip riscontra la presenza di «un programma criminale articolato, finalizzato alla realizzazione di una serie di episodi di corruzione di sanitari, avvicinati attraverso la mediazione di soggetti dalla caratura mafiosa o di consapevoli intermediari, propedeutici all’ottenimento di forniture di prodotti medicali alle strutture pubbliche ospedaliere del comprensorio reggino».
Premura delle cosche, negli anni, era stata quella di inserire persone di riferimento nell’organigramma aziendale per poter avvicinare i professionisti deputati, a fronte delle funzioni svolte, a favorire dette società. Tra questi spicca il nome di Franco Modaffari detto “Capretta” che «ha – nelle parole del gip – relazioni ha relazioni con la “famiglia” Guerrisi», ma anche Antonino Cernuto, cognato di Girolamo Strangi e soggetto vicino ai Molè. L’odierna indagine dimostra come negli anni, in nome delle cointeressenze, le cosche avevano sotterrato la presunta ascia di guerra arrivando a collaborare. Anche questo aspetto facilitava «il sodalizio criminale a realizzare i propri fini, sfruttando la caratura mafiosa dei propri componenti e le cointeressenze di pubblici ufficiali infedeli».
Antonino Modaffari è il figlio di Franco. Formalmente uno dei titolari delle quote societarie, ma soprattutto «diretto esecutore delle strategie aziendali delineate dal padre insieme Fabiano Tripodi, figlio di Francesco Michele e gestore degli affari di Minerva e soprattutto Mct».
Il giudice lo definisce «pienamente consapevole del meccanismo ideato per l’ottenimento delle commesse, del prezzo della corruzione da elargire ai medici compiacenti, della rendicontazione interna delle spese effettuate per raggiungere tale obiettivo, della via preferenziale per la liquidazione dei mandati di pagamento». Lui è uno di quei soggetti deputati ad interfacciarsi, numerose volte, con i pubblici ufficiali incaricati. Tra questi c’è Francesca Laface, destinataria di misura interdittiva, che svolge il suo ruolo negli Uffici di regioneria. Secondo il pentito Marcello Fondacaro «è il punto di riferimento di Fabiano Tripodi e altri soci della “Mct” all’interno dell’Asp reggina». A Natale 2017, Tripodi le avrebbe recapitato «secondo le tipiche modalità di consegna» un cesto carico di regali che avrebbero dovuto recapitare un suo uomo. «Glieli sali tutti in una volta, così alla signora Franca – dice Tripodi – sì… devi aprire lo sportello della macchina e glielo devi mettere all’interno… le scrivi che lo abbiamo preso… ah?» Ma quella non è l’unica occasione. Accade un’altra volta, e questa volta a ricompensare «la signora che si è prodigata», ci avrebbe pensato Antonino Modaffari.
In un’intercettazione del 27 marzo 2017, parla dell’acquisto di borse da donna presso l’outlet di Castel Romano, una delle quali da donare alla Laface che a suo dire lo aveva chiamato per dirgli «del pagamento delle fatture».
Sempre Modaffari, in altre circostanze interloquisce con Pasquale Mamone, accusato di concorso esterno con la cosca Piromalli. «Nella sua qualità di dirigente medico responsabile del servizio di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Gioia Tauro» avrebbe agevolato la “Mct” «sia effettuando direttamente forniture di prodotti medicali sia sponsorizzandola, con la stessa finalità, con altri dirigenti medici, garantendo somministrazioni continue». In cambio riceveva la possibilità di utilizzare macchine di lusso o aveva in regalo telefoni cellulari. Il suo ruolo sarebbe stato attivo anche nell’ospedale di Polistena, dove per conto della famiglia Delfino avrebbe organizzato «una visita medica “strategica” in favore di un fratello (non meglio individuato) di Rocco Delfino», arrestato nell’ambito di “Rinascita-Scott”. Tutto finalizzato, secondo la Dda, «al confezionamento di una falsa certificazione sanitaria».
Ci sono poi Giuseppe Fiumanò e Domenico Forte, interdetti dal pubblico ufficio, rispettivamente direttore delle farmacie presidiarie dell’Asp e medico in servizio a Polistena. Si erano messi d’accordo con Antonio Tripodi e lo stesso Antonino Modaffari per «forniture di cateteri, stilando un patto che prevedesse la corresponsione di denaro e altre utilità per i sanitari coinvolti». Gli inquirenti quantificano la promessa nel 5% dell’importo della fornitura delle pompe per infusione e relativi deflussori per Forte (che si aggiungeva al 2,5% del valore della fornitura dei catereri) e di 2mila euro per Fiumanò.
Il “prezzo” di Santo Cuzzocrea, responsabile della farmacia ospedaliera di Melito Porto Salvo, emerge invece da una conversazione ambientale del 6 aprile 2018 tra Modaffari e Mario Vincenzo Riefolo. L’importo da corrispondergli viene quantificato in 3.800 euro per tramite di Arcieri, rappresentante della società “Lewis Medical Srl” e soggetto ritenuto vicino ai Pesce di Rosarno. In cambio, il pubblico funzionario avrebbe dovuto «procedere ad effettuare ordinativi alla “Mct” di prodotti medicali e apparecchiature». Uno schema che si ripete spesso, col medesimo oggetto e le medesime finalità.
Condotte dal perimetro sfumato, così come le fattispecie che nell’inchiesta si ipotizza possano ospitarle.
Emblematiche sono le conversazioni intercettate tra Modaffari e Riefolo, che distinguono i soggetti presunti coinvolti in base ad un “libro paga” tenuto da “Mct”. Nella conversazione del 21 dicembre 2017, i due fanno espresso riferimento a Mamone «che non è a libro paga, ma riceve regali per i suoi interventi». La chiave di lettura di questa affermazione viene ritrovata dagli inquirenti in una successiva conversazione captata il 24 gennaio 2018 dove addirittura Riefolo prova a tenere una sorta di contabilità delle somme elargite ai medici a “libro paga”. «Mi pare – dice Modaffari – che Federico tiene il conto di quelli che abbiamo dato già…ce li ha segnati» discutendo quindi sulle cifre versate e su quelle ancora da versare. (redazione@corrierecal.it)
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