Enrico Letta ha seminato in questi giorni un campo pieno di mine retoriche. Le donne in primis. La premessa all’azione di Letta, prodigo di buoni insegnamenti, è stata la similitudine: “vogliamo somigliare a quello che diciamo”. Le intenzioni, tuttavia, non sembrano avere riscosso il successo desiderato e dal volto del Partito sono spuntate le sembianze di una smorfia. Inutile nasconderlo, sono evidenti i segni di una patologia che riguarda il sistema politico italiano che alle donne ha concesso lo spazio delle quote di genere negando il principio del merito e instaurando relazioni di dipendenza in cui a tenere il bandolo sono i capi correnti, uomini.
Il partito democratico, da contenitore di principi che volevano modernizzare il paese, dopo quindici anni di buona predicazione praticata male, si ritrova a fare i conti con un problema di improbabile soluzione. A produrre cambiamenti, senza cambiare i processi, non c’è mai riuscito nessuno. In matematica, si chiama proprietà commutativa, ovvero cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Sul piano politico, la filosofia commutativa, produce gli stessi risultati: sostituire un uomo con una donna che con questo mantiene relazioni dipendenti, e da questo viene indicata, non produce alcun cambiamento. Questo dato di fatto, apparentemente banale, non significa mollare la presa sulla necessità vitale di cambiamento -che il segretario Enrico Letta ha scelto di segnalare senza indugi partendo dalla questione delle donne. Indica, piuttosto, a ciascuno degli individui che popolano il collettivo politico, ad agire oltre la superficie, promuovendo, perché no, un esamone di coscienza a partire dalle donne così poco consapevoli, talvolta, dei guasti di cui si diventa complici. Altrettante riflessioni sono consigliate agli aventi ruolo e titolo. Non sono le prediche, talvolta facili, che abbiamo voglia di reclamare verso il neo segretario Enrico Letta o la ex vice segretaria Debora Serracchiani. La vicenda è sotto gli occhi di tutti: in Senato, Andrea Marcucci si è fatto sostituire da una donna della sua corrente, Simona Malpezzi; parimenti alla Camera, Graziano del Rio, contro l’ex ministro Marianna Madia, sembra che stia muovendo i voti a favore di una donna della sua corrente, l’agguerrita Serracchiani, che è anche presidente della Commissione lavoro. Su entrambi gli avvicendamenti richiesti da Letta, davanti al monito “largo alle donne”, i capo correnti al comando, hanno fatto una corsa sul posto per ottenere, all’unanimità del gruppo parlamentare, la conferma di una donna della medesima corrente.
Poteva essere diverso? Volendo sì. Potendo forse no. Il limite che ha condizionato l’appello “largo alle donne” è stato probabilmente la mancanza di coraggio a dire “basta con le correnti” e la fretta del neo segretario per segnalare la direzione che intende imprimere al suo partito. La vicenda dimostra, tuttavia, che la sostanza delle esigenze di modernizzare e liberare il partito dalle correnti, valorizzando la rappresenta femminile, non ha riscontrato la volontà né delle donne né degli uomini del partito democratico che si trovano in parlamento.
Promosso per le intenzioni, che non dubitiamo fossero e restano sincere, da parte di Letta, al neo segretario va segnalata una questione dirimente. E riguarda la necessità di sviluppare un modello di relazioni fondate sulla libertà, con alcuni vincoli di carattere ideale. Libertà, perché crediamo che “gli uomini non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità (Einaudi). Vincoli, perché ciò che dà senso alla libertà degli uomini e delle donne che scelgono di partecipare alla vita politica del proprio paese pone alcuni vincoli sui valori che stanno alla base del progetto politico. Primo fronte da costruire sia all’interno che all’esterno è, dunque, il progetto politico.
Al pari della vita matrimoniale, l’unione di individui che popolano la vita pubblica, può essere felice e produrre buoni frutti se e fino a quando ci sono alcune condizioni. La prima è, evidentemente, l’esistenza di un progetto capace di dare corpo alle idee e agli ideali che connotano l’appartenenza a una specificità politica. Un’altra condizione da cui non è possibile prescindere riguarda il metodo, farlo con la forza o con la libertà, con le buone o con le cattive, fa una certa differenza perché lo Stato deve essere guidato dalle leggi e non dagli uomini (Bobbio).
Alla realtà non si sfugge, quindi, prima si chiamano le cose con il loro nome, meglio si risolve anche la questione delle donne. A questo proposito, guardare meramente al genere, è una perdita di senso. Dire “largo alle donne” non basta, per riuscire a scardinare il potere maschile. La riprova di un rischio boomerang, a usare male una buona causa, si coglie già nelle candidature a sindaco. A Roma, per esempio, il Pd, per ragioni che riteniamo possano essere di merito e che appartengono alla politica, non condivide la buona opinione che Virginia Raggi ha di sé stessa. Entrare nel merito, evitando di strumentalizzare questioni come la presenza delle donne in politica, potrebbe essere un monito molto più fecondo da portare avanti. Sulle candidature in città come Roma, Milano o Napoli, o ancora per la presidenza della Regione Calabria, anche questa foglia, delle donne, ci sembra destinata a cadere in autunno.
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