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Rinascita, Emanuele Mancuso è un fiume in piena. E scatena il “panico” in aula

Il collaboratore fa il nome dell’avvocato Sabatino. I colleghi: «Non c’entra col processo». Quando i Rizzo «si accaparrarono un maresciallo»

Pubblicato il: 31/03/2021 – 23:25
di Alessia Truzzolillo
Rinascita, Emanuele Mancuso è un fiume in piena. E scatena il “panico” in aula

LAMEZIA TERME «Mamma mia che scatenavi!». Poco prima che il collegamento col sito protetto venga spento per una breve pausa, Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia (primo e unico del proprio casato di ‘ndrangheta) commenta la fibrillazione che fino a poco prima si era registrata nell’aula bunker di Lamezia Terme, nel corso del suo esame nell’ambito del processo Rinascita-Scott.
Tutto nasce da una domanda posta dal sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci sui rapporti dei Mancuso con esponenti della criminalità reggina. Il pm chiede: «Lei ha avuto a che fare nella casa circondariale di Reggio Calabria con persone che hanno avuto rapporti con esponenti della sua famiglia?».

«Quando Sabatino mi tirava calci sotto al tavolo»

«Tutti conoscono la mia famiglia. Mi trattavano come un gingillo», risponde Mancuso. Il magistrato specifica che si riferisce alla sua famiglia più ristretta, di origine, non a tutti i Mancuso.
«Guardi io ho ricevuto una minaccia in carcere che proveniva dall’avvocato Francesco Sabatino e da mio fratello». C’è da premettere che l’avvocato Sabatino non risulta indagato e che è presente al processo quale difensore di diversi imputati.
«Siccome avevo fatto un interrogatorio di garanzia – spiega Mancuso – pari all’essere quasi un collaboratore di giustizia… tant’è che quanto facevo l’interrogatorio di garanzia l’avvocato Sabatino mi tirava calci sulle gambe perché il dottore Di Palma (Roberto Di Palma, all’epoca sostituto procuratore a Reggio Calabria, ndr) mi faceva domande tipo “chi sono sti sette albanesi” e io rispondevo: “dottore guardi che non si parla di sette albanesi, sono sette chili e mezzo di albanese”». A questo punto l’esame viene interrotto dalle difese che ritengono che il nome e gli argomenti riguardanti l’avvocato Sabatino «non siano funzionali o pertinenti ai capi di imputazione». Il presidente del collegio giudicante, Brigida Cavasino, ritiene che la domanda del pm sia assolutamente ammissibile e ammessa e, certo, poi non è possibile controllare le risposte del collaboratore. Le difese – gli avvocati Leopoldo Marchese, Enzo Galeota e Diego Brancia – insistono chiedendo che non si inquini il dibattimento con affermazioni che non hanno rilevanza rispetto all’oggetto delle imputazioni a tutela dell’avvocato che quando e se sarà chiamato a rispondere a tali affermazioni lo farà. «Non mi si può chiedere di incidere sulle risposte perché non l’ho mai fatto e non lo farò mai – afferma il pm – poi saranno frutto di valutazioni che farà il Tribunale, che farà la Procura, che faranno i difensori. Io sto esplorando il tema dei rapporti tra famiglie, non posso controllare a monte la risposta». Le difese pongono l’accento sul fatto che i verbali di Emanuele Mancuso contengono degli omissis e si può anticipatamente chiedere al collaboratore di omettere determinati denominativi, come vengono omessi determinati argomenti, perché davanti a questo Tribunale di sta trattando altro. Si tratta il tema del controllo della risposta per evitare che l’aula di udienza «si trasformi in un agone infuocato e avvelenato».
Ma la rapida risposta del collaboratore, per quanto interrotta dal dibattito che la stessa ha scatenato, è già stata data, già stata fonoregistrata e ascoltata da pubblico e giornalisti presenti. D’altronde è lo stesso Emanuele Mancuso che, quando riprende la parola, fa presente che il pm gli ha posto una domanda: i rapporti con il Reggino, ma «se io non faccio la premessa come faccio a raccontare il fatto… e poi io non conosco gli atti omissati e gli atti non omissati. Se poi si scatena la bagarre solo perché dico il nome dell’avvocato Francesco Sabatino, non vale», dice. Riportato il collaboratore sui binari l’esame prosegue. 

«Ti devi stare zitto e basta»

Dopo l’interrogatorio di garanzia – spiega Mancuso – nell’ambito del procedimento Mediterraneo in cui era coinvolto il fratello di Emanule Mancuso, Giuseppe, gli avvocati difensori di Giuseppe Mancuso, tra i quali appunto Sabatino, gli dicono «vedi che tuo fratello sta parlando assai, tappagli la bocca». «Così al ritorno dell’udienza mi richiamano Pino Galluccio e Domenico Stanganelli presso il carcere di Reggio: “Ti devi stare zitto e basta e non devi parlare dello zio Luigi”. Punto! Questo vi stavo raccontando che riguarda le cosche reggine che sono legate a mio fratello Giuseppe», dice deciso Emanule Mancuso spiegando perché in premessa aveva fatto il nome di Sabatino. Gli Sdanganelli, specifica Mancuso «non è che appartengono ai Molè, sono i Molè, perché la mamma degli Sdanganelli è dei Molè». Nel corso dell’esame, quando gli viene chiesto il perché abbia deciso di collaborare con la giustizia, Emanuele Mancuso racconta, riallacciandosi anche a questo episodio: «Io volevo collaborare fin dall’inizio. Se n’era accorto anche il procuratore Di Palma durante quell’interrogatorio di garanzia. E mi chiedeva “di cosa hai paura?”». La questione è costata al collaboratore anche una lettera del fratello Giuseppe il quale gli scriveva cose come: “Le parole si pagano”, e “Spero di non incontrarti mai”.

Accaparrarsi un maresciallo

Un dissidio con Giovanni Rizzo, alis “mezzo dente”, figlio di Romana Mancuso, nasce con l’arrivo di un giostraio di Catanzaro Lido a Nicotera. Il giostraio diviene inviso ai Rizzo perché non ha lasciato loro i biglietti gratis, cosa che aveva fatto con Emanule Mancuso. Questo fatto fa scaturire un diverbio che sfocia con un vero e proprio pestaggio ai danni di Rizzo, che finisce col setto nasale spaccato. «L’ho picchiato dopo che mi ha insultato», dice il collaboratore. L’episodio scatena un incidente diplomatico per sedare il quale il ragazzo viene portato tre giorni a Cittanova, a casa di uno dei Raso. Si decide che solo il padre di Emanuele Mancuso può punirlo e lo farà, se riterrà opportuno, quando uscirà dal carcere. Padre e figlio si incrociano, però, perché quando uno viene scarcerato l’altro viene arrestato.
In una occasione in cui il Tdl lo manda ai domiciliari, Emanuale Mancuso si vede arrivare in casa Leo e Giovanni Rizzo. Comicia una discussione davanti al padre di Emanuele, Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere”. I Rizzo dicono che Emanule li accusava di essere un venduti dei carabinieri. «Mio padre mi spara due schiaffi – racconta Emanuele – perché non dovevo picchiare uno più grande e autorevole di me, qualunque cosa mi avesse detto». Sulla questione del carabiniere si sorvola perché era funzionale alla cosca. «Perché il maresciallo Negro, piuttosto che operare come normalmente si fa nelle forze dell’ordine, si era rivolto ai Rizzo, che erano quelli che gestivano il territorio, per scoprire chi avesse fatto l’incendio ai danno suoi e della moglie». Secondo quanto racconta Mancuso i Rizzo pestarono a sangue colui che era ritenuto responsabile dei danneggiamenti al maresciallo.
«Perché questa cosa era funzionale alla cosca?», chiede il pm.
«Dottoressa, accaparrarsi un maresciallo dei carabinieri penso che per una cosca sia il massimo», risponde Mancuso.

Il fascicolo in mano a Leo Rizzo

In quella occasione Leo Rizzo aveva in mano il fascicolo riguardante la rapina alla Crai a Santa Domenica di Ricadi per la quale vengono tratti in arresto per primi Mancuso e Antonio Corso sulla base delle dichiarazioni del commerciante. «Il maresciallo Negro era intimo amico dello zio di Antonio Corso e suggerì allo zio di far collaborare Antonio Corso il quale confessa ma non fa i nomi di nessuno. In seguito i carabinieri fermarono Simone Caprino portò i carabinieri dov’era nascosta l’arma con il colpo in canna e sentito senza avvocato disse che la rapina la commisero lui e Antonio Cuturello e io e Corso eravamo in macchina ad attendere». Mancuso viene arrestato e va a Lecce dove fa un nuovo interrogatorio di garanzia, assistito dall’avvocato che gli dice che hanno collaborato tutto. Così Mancuso ammette tutto e fa i nomi. Non sapeva che la dichiarazione di Caprino non era valida perché non c’era l’avvocato di fiducia quindi l’unico verbale che rimaneva in piedi era il suo, unico ad avere reso dichiarazioni con l’avvocato accanto. «Mi viene contestato di avere fatto un’infamità nei confronti di Cuturello». Uno strappo, quest’ultimo che viene ricucito riconoscendo il fatto che sia Emanuele Mancuso che gli altri compari avevano sbagliato e tutti, in realtà, avevano parlato.  (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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