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San Ferdinando, sui resti della tendopoli (dimenticata) sta sorgendo una nuova baraccopoli

Due anni dopo lo sgombero voluto dal Viminale, oltre 700 vivono in condizioni di degrado. Logiacco: «Renderli “visibili” per prevenire il caporalato»

Pubblicato il: 31/03/2021 – 7:38
di Francesco Donnici
San Ferdinando, sui resti della tendopoli (dimenticata) sta sorgendo una nuova baraccopoli

REGGIO CALABRIA «Tra qualche ora, anche se è “zona rossa”, dobbiamo essere allo sportello. Soprattutto in momenti come questo, cerchiamo di farci trovare per risolvere insieme problemi che per loro, se lasciati da soli, sarebbero insormontabili». La voce di Celeste Logiacco, segretario Cgil della Piana di Gioia Tauro, è quella di quanti tra sindacati, associazioni ed Enti, non si sono ancora arresi alla condizione di “invisibilità” delle centinaia di persone che popolano gli insediamenti.
Ilaria Zambelli, invece, è una degli operatori di Medu (Medici per i diritti umani), impegnati dall’inizio della pandemia per gestire «a mani nude» l’emergenza in luoghi sempre più desolati. «Quando il perimetro della tendopoli è diventato “zona rossa”, erano state allestite delle tende per la quarantena dei positivi. Ma rispetto alle altre non c’era nessuna separazione se non delle strisce di nastro bianco e rosso».
La “zona rossa”, tornata in vigore in tutta la regione lo scorso 29 marzo, si estende anche agli insediamenti della Piana, dove la situazione è andata via via peggiorando.
Sono passati poco più di due anni dallo smantellamento (a favor di telecamere) della baraccopoli voluto dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini e coordinato dall’ex prefetto di Reggio Calabria Michele di Bari. Oggi il primo non è più al Viminale, il secondo sì.
Era il 6 marzo 2019. Una parte degli stanziali furono trasferiti nella tendopoli allestita qualche decina di metri più in là delle macerie lasciate – la bonifica dell’area è in corso proprio in questo periodo – dall’intervento dello Stato. Un’altra parte si spostò nel campo container di Rosarno e i meno fortunati si dispersero per gli insediamenti informali di cui sono costellate le campagne della Piana.
Le tende, da provvisorie, sono diventate sistemazione definitiva fino a che, la scorsa estate, si è deciso di smantellarle. Soluzione per certi versi obbligata, diceva il sindaco Andrea Tripodi. «Forse così ci ascolteranno e si accorgeranno di queste persone». Speranza vana.
Due anni dopo si è tornati al punto di partenza, con varianti nuove, quelle del Covid, e problemi vecchi.

Lo sportello Cgil della Piana di Gioia Tauro

L’emergenza abitativa: quello che resta della tendopoli

«Da qualche settimana c’è chi già ha deciso di spostarsi», spiega Logiacco. Anche tra le baracche e i container c’era sentore che la regione potesse tornare ad essere “rossa”, col rischio di rimanere bloccati dopo la chiusura della campagna agrumicola. Nonostante questo, «alla tendopoli il numero attuale oscilla intorno alle 500 persone, al campo container siamo invece sotto i 200». Questi sono i luoghi dove un censimento, sebbene approssimativo, è ancora possibile. «A Contrada Russo (nel territorio comunale di Taurianova, ndr) individuare il numero delle persone non è possibile. Spesso si spostano e quando lavorano fino a tardi, nella difficoltà di raggiungere l’insediamento, dormono altrove». Proprio in quel “ghetto”, durante la prima ondata, in seguito a uno scontro con un suo connazionale con problemi psichiatrici, morì un ragazzo di 31 anni. L’episodio portò i migranti a chiedere a gran voce la “regolarizzazione” delle condizioni di lavoro e abitativa.
«La pandemia ha aggravato le condizioni negli insediamenti, specie nella zona della tendopoli». Lamiere, travi, materiali di scarto compongono le baracche oggi posizionate vicino alle carcasse di qualche tenda. Un film già visto. Il vessillo blu con scritte bianche del Ministero dell’interno si è ammainato prima che la “battaglia” fosse iniziata. Così «la tendopoli si è trasformata in una nuova baraccopoli».
Dopo la sassaiola e le reazioni violente degli scorsi mesi, gran parte della cancellata che delimitava il perimetro è stata divelta e il container d’accesso, reso inagibile.
L’“Associazione Guardie Ambientali” che fino allo scorso 28 febbraio gestiva la tendopoli rispondendo ai bisogni dei residenti, ha deciso di abbandonare: il Viminale non ha più corrisposto i fondi e il Comune, a sua volta, non ha potuto saldare gli stipendi degli operatori.
Così, è cessato anche il servizio di raccolta rifiuti. Ci sono tre contenitori stracolmi, minuscoli se paragonati al numero degli stanziali. Cumuli lungo tutta la via che separa un sito dall’altro. L’allarme era stato lanciato nelle scorse settimane anche dal sindacato dei Vigili del fuoco, in servizio nell’area. Viene da chiedersi se il tour studiato per il commissario Covid Francesco Paolo Figliuolo prevedesse almeno un affaccio su quello spaccato, nel suo tragitto verso Taurianova. Di fatto, le condizioni igieniche e di abbandono del sito peggiorano una situazione sanitaria già di per sé precaria – per tutte le persone presenti in regione – per via della pandemia.

L’emergenza sanitaria: la “zona rossa” inaccessibile

«Così com’era avvenuto nella prima ondata, non è stata fatta alcuna campagna di informazione per spiegare le restrizioni e rischi legati all’emergenza Covid. Da qui la frustrazione dei mesi scorsi». Ilaria Zambelli fa parte di Medu, associazione che durante la prima ondata aveva ricevuto i fondi relativi ad una parte del progetto “Supreme” bandito dalla Regione per effettuare campagne di prevenzione e contenimento dei contagi nella Piana (e così era stato anche con Intersos nella Sibaritide). «I fondi che abbiamo ricevuto erano relativi al periodo di maggio-giugno scorsi, poi siamo tornati a ottobre con la clinica mobile, ma grazie alle risorse derivanti da altri progetti». Per la seconda ondata i fondi “Supreme” (per quanto attiene l’ambito sanitario) sono impiegati direttamente dall’Asp di Reggio Calabria che reca una clinica mobile negli insediamenti per effettuare tamponi molecolari su richiesta degli stessi braccianti o per tramite degli operatori delle associazioni qualora vengano riscontrati sintomi sospetti. «Molti ci stanno dando ascolto e seguono le nostre direttive al netto di una sfiducia frutto della mancata gestione delle “zone rosse”».

Le tende allestite per la quarantena durante la “zona rossa”

L’area del campo container in Contrada “Testa dell’Acqua” era stata “chiusa” per la prima volta lo scorso 13 ottobre, con l’ultima ordinanza firmata dalla governatrice Santelli. I 15 positivi (su 80 testati) erano stati isolati in alcune tende a 200 metri di distanza dal perimetro. La settimana successiva la “zona rossa” era stata prorogata al 26 ottobre dopo che l’attività di screening dell’Asp aveva reso necessario «confermare le azioni per circoscrivere il focolaio».
La restrizione, nella tendopoli, era entrata in vigore il 17 ottobre. Ma in questo caso si sono verificate alcune incongruenze: i 14 positivi (su 30 testati) erano stati isolati nello stesso perimetro della “zona rossa” e la durata della misura non era stata inizialmente specificata. «Anche dopo la scadenza della “zona rossa” – dice Zambelli – c’era un dispiegamento di forze e controlli tale da rendere difficile l’accesso all’area. Avevamo i permessi per accedere al perimetro della tendopoli, non al campo container dove siamo potuti entrare, scaduta la misura, dopo la previa richiesta fatta in prefettura».
All’isolamento vanno aggiunte anche le difficoltà di accesso alle tutele indennitarie. «Ai residenti degli insediamenti venuti a contatto con i positivi non è stata riconosciuta la “quarantena fiduciaria obbligatoria” che ti permette di chiedere la “malattia”». Una misura prevista per i conviventi, «che comunque vivono in luoghi di minore prossimità rispetto a una tenda o una baracca».  
Così, molti residenti hanno iniziato ad avere paura di dichiarare eventuali sintomatologie: «Le “zone rosse” hanno messo in ginocchio i lavoratori», dice l’operatrice Medu. Molti hanno avuto difficoltà a rinnovare le tessere sanitarie per poter accedere all’indennità, altrettanti non avevano maturato – spesso perché non dichiarate – le 50 giornate lavorative necessarie per potervi accedere. La mancanza di tutele e l’accentuazione della vulnerabilità dei braccianti, una volta in più li ha consegnati nelle mani dei “caporali”.

L’emergenza sociale: il caporalato, tra prevenzione e repressione

Arresti nell’ambito dell’operazione “Rasoterra”

«I braccianti arrivati quest’anno non hanno trovato le condizioni di lavoro che si aspettavano perché la raccolta è calata di molto», dice Logiacco. «Con l’attività dello sportello cerchiamo di far uscire queste persone dell’“invisibilità” affinché non siano ricattabili. I “caporali” minacciano i braccianti (soprattutto se irregolari) di denunciarli e li costringono a sottostare alle loro condizioni».
Il 4 marzo la Dda di Reggio Calabria svela le trame del potente clan “Piromalli-Molè” sui residenti dell’ex baraccopoli facendo venire alla luce «un sistema diffuso di sfruttamento lavorativo». Nell’ambito dell’operazione “Rasoterra” vengono eseguite 9 misure cautelari che fungono da segnale della presenza dell’autorità sul territorio in termini di contrasto. Ma se il contraltare è la regressione degli insediamenti in nuove baraccopoli, per porre fine al sistema di sfruttamento dei braccianti, la repressione dei crimini non basta. «Attendiamo ancora che sia pienamente ed efficacemente attuata la parte [della legge 199 del 2016] che riguarda la prevenzione», scriveva proprio la segretaria Cgil della Piana all’indomani dell’operazione. Tra i vari strumenti previsti dalla legge c’è la “rete del lavoro agricolo di qualità”, di carattere “premiale” per le aziende agricole sane, voluta nella provincia di Reggio dal prefetto Mariani. «I problemi dello sfruttamento e del lavoro sommerso, nonostante gli sforzi fatti, non sono ancora stati risolti totalmente». Per questo, scriveva Logiacco, si rende necessario «intervenire su trasporti, alloggi, accoglienza e incontro tra domanda e offerta di lavoro pubblico e trasparente» per togliere forza dalle mani dei caporali. (redazione@corrierecal.it)

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