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«La Pasqua cristiana e gli antichi riti di rigenerazione in Calabria»

«La Pasqua cristiana è “nuova creazione” rispetto a quella della Genesi. La resurrezione di Gesù avviene, infatti, nel primo giorno della settimana ebraica, lo stesso in cui Dio aveva creato l’Uni…

Pubblicato il: 05/04/2021 – 11:25
di Francesco Bevilacqua
«La Pasqua cristiana e gli antichi riti di rigenerazione in Calabria»

«La Pasqua cristiana è “nuova creazione” rispetto a quella della Genesi. La resurrezione di Gesù avviene, infatti, nel primo giorno della settimana ebraica, lo stesso in cui Dio aveva creato l’Universo. Se per gli ebrei la Pasqua la festa della “liberazione” dalla schiavitù, per i cristiani è invece la festa della salvezza, della sconfitta della morte. È, in sostanza, la fondamentale “promessa” che Dio fa agli uomini: restituire loro il dono dell’immortalità che era stato abrogato al tempo della cacciata dall’Eden.

La Pasqua cristiana, secondo il Catechismo cattolico, è una “nuova alleanza” fra Dio e gli uomini. Scrive San Paolo: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la nostra fede” (I Cor 15,14). La Pasqua è, infine, il più forte simbolo salvifico per i cristiani e la giustificazione stessa dell’immenso successo che la nuova religione ebbe nella storia: ricordiamo che la principale elaborazione culturale dall’avvento della rivoluzione cognitiva nell’uomo (l’invenzione del linguaggio verbale, circa 70.000 anni fa) è esattamente quella della morte, che, diversamente, avrebbe reso priva di senso la vita. Ma, nella credenza comune – che prescinde dalle sottigliezze teologiche colte – la Pasqua è, più semplicemente, la festa che celebra il ciclico ritorno della vita, ben rappresentata nella natura e nelle colture agrarie, con la ricrescita delle piante, i germogli, le fioriture dopo la lunga “morte” invernale.

Dunque, la festa Pasqua cristiana si sovrappose – anche allo scopo di spodestarli e sostituirli – ai riti preesistenti che, quasi ovunque, si celebravano nel mondo “pagano” in primavera e che, dopo più di duemila anni di storia sono ancora ben vivi nell’immaginario collettivo e nella memoria ancestrale delle popolazioni dell’Europa e del Mediterraneo. In Calabria due esempi: la festa della “Pita” (abete) ad Alessandria del Carretto (CS) (descritta in un documentario di Vittorio De Seta) e quella della “‘Ntinna” (antenna, palo) a Martone (RC) (descritta in un altro documentario da Nino Cannatà). Le due feste prevedono, con varianti, la scelta e il taglio in montagna di un grosso albero, il suo trasporto al paese, l’innalzamento del “palo”, ricavato con la sramatura e lo scortecciamento, al centro della piazza intesa come luogo della comunità, l’innesto in alto di fronde verdi (simbolo di rigenerazione), una gara di arrampicata lungo il tronco per cogliere i doni collocati in cima. Il tutto infarcito di riffe, musiche, danze, libagioni.
Albero e vegetazione in genere sono il condensato dell’eterno rigenerarsi della natura, quella che Mircea Eliade chiama non a caso, nel suo “Trattato di storia delle religioni”, “resurrezione della vegetazione”. Al culto degli alberi e quindi alle origini mitiche del simbolismo arboreo ha dedicato due capitoli della sua monumentale opera, “Il ramo d’oro”, James G. Frazer, che accomuna i riti arborei rilevati in Europa con il nome di “maggio”, per indicare il mese nel quale essi più ricorrevano. “L’usanza […] – scrive Frazer – aveva lo scopo di portare nel villaggio lo spirito fecondatore della vegetazione che si risvegliava ogni anno in primavera”.
Altri e diversi riti presenti in Calabria (mi riferisco ai flagellanti di Nocera Terinese e di Verbicaro, che nei giorni della Settimana Santa, sabato per Nocera, giovedì per Verbicaro, si battono il corpo provocando la fuoriuscita di sangue che viene sparso per le vie dei rispettivi paesi) sono ritenuti, da alcuni autori, anch’essi in collegamento con il mito della rigenerazione agraria. Benché – sia chiaro – anche per questi autori i riti di flagellazione siano ormai completamente riplasmati non solo dalla narrazione cristiana ma anche dagli eventi di spettacolarizzazione neo-identitaria della modernità.
E sui riti di rigenerazione collegati ai cicli agrari e che hanno per protagonisti diverse specie di piante edibili, il grano in primis ma anche la vite e il lino, si sofferma Ernesto De Martino in un capitolo di “Morte e pianto rituale nel mondo antico” significativamente intitolato “La messe del dolore”. De Martino ricorda come “nelle civiltà religiose del mondo antico il centro culturale dell’esperienza della morte […] è in organico rapporto con quella vicenda di scomparse e ritorni in cui l’uomo aveva appreso effettivamente a farsi procuratore di morte secondo una regola umana, inaugurando efficacemente il distacco dalle condizioni naturali: cioè la vicenda della scomparsa e del ritorno delle piante coltivate”. Da qui il “cordoglio” delle comunità contadine allorché, per ragioni di stretta utilità, erano costrette a “dare” la morte alle piante. Ecco, dunque, la necessità di elaborare il lutto attraverso riti di superamento della “passione vegetale”. Nel capitolo del libro di De Martino il tutto è messo in connessione con il lamento funebre ed il pianto rituale, ampiamente attestato in vari casi di passione vegetale. E benché l’autore faccia riferimento particolarmente a piante edibili, come il grano e la vite, vi è anche un breve accenno all’abbattimento di un albero, il pino, nel culto di Attis. Cibele, madre di Zeus, procreatrice di tutto, venerata in Asia Minore, si era invaghita di Attis e gli aveva vietato di innamorarsi di altre donne. Attis si evira e si lascia morire dissanguato presso un albero. Cibele, addolorata, fa sì che l’albero rifiorisca ogni anno, all’equinozio di primavera, e con esso tutta la natura (morta durante l’inverno), grazie al sangue che i sacerdoti versano durante una danza orgiastica. Va chiarito che Cibele, divinità originaria dell’Asia Minore equivaleva alla grande dea Madre del Mediterraneo preellenico, alla cui figura ha dedicato importanti studi e ricerche l’archeologa Marija Gimbutas condensati nel libro “Il linguaggio della dea”. Ma il ricordo di quella divinità femminile non fu del tutto cancellato, tant’è che Esiodo, nella “Teogonia” scrive: “Dunque in principio fu Caos; poi subito Gea dall’ampio seno, per sempre sicura dimora di tutti gli immortali che possiedono la vetta dell’Olimpo nevoso […] Gea per primo generò, uguale a sé, Urano stellato”. Il ricordo della grande dea madre rimase poi anche nel pantheon greco e romano finendo per essere rinnovato nelle figure di Iside (di origine egiziana) e di Demetra (che significa, appunto “terra madre”, protettrice delle messi e quindi della rigenerazione), in parte anche con Artemide (la Diana dei latini, la vergine cacciatrice, regina delle foreste). Sino a che, nel 431 d.C. i prelati cristiani convenuti ad Efeso – guarda caso città simbolo del culto di Artemide-Diana (allora molto diffuso in tutto il mondo euro-mediterraneo) – pensarono bene di canonizzare la figura femminile di maggior spicco del cristianesimo, la Madonna (nei confronti della quale la Chiesa era stata sino ad allora del tutto indifferente), di dichiararla madre di Dio e di dedicarle esattamente il giorno che sino ad allora era stato quello di Artemide, il 15 di agosto, stabilendo il dogma della sua assunzione in cielo».

*Avvocato e scrittore

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