CATANZARO Il troncone dell’inchiesta “Petrolmafie Spa” che ha interessato la Dda di Catanzaro non a caso è stato denominato “Rinascita-Scott 2” perché prende piede proprio da uno dei profili più significativi dell’inchiesta sulle cosche del Vibonese. Il profilo in questione (anche se non è direttamente indagato in questa specifica indagine) è quello di Pietro Giamborino, 64 anni, ex consigliere regionale e personaggio di lungo corso della politica vibonese, indicato dai collaboratori di giustizia quale uomo legato alla cosca dei piscopisani. Il pentito Raffaele Moscato, braccio armato dei piscopisani, lo definisce «battezzato quale ‘ndranghetista». In cambio di voti – è l’accusa di concorso esterno nel processo Rinascita che si sta celebrando a Lamezia Terme – Pietro Giamborino «si prestava ad accordare agli accoscati favori di vario genere, ivi compresa l’agevolazione, nell’aggiudicazione di appalti pubblici, di imprese agli stessi “gradite”». È “seguendo” Giamborino che i militari del Ros arrivano all’imprenditore Giuseppe D’Amico, 48 anni, anch’egli di Piscopio, frazione di Vibo Valentia.
Giuseppe D’Amico e tra gli imprenditori indicati da Raffaele Moscato quali «ditte compiacenti» che beneficiavano dell’«aggiudicazione di lavori ad imprenditori vicini ai piscopisani» e che «poi pagavano la mazzetta ai piscopisani dopo aver chiuso i lavori». Il 27 maggio 2018 i militari intercettano una conversazione a casa di Pietro Giamborino tra questi, il nipote Filippo Valia e Giuseppe Salvatore Galati, uno degli elementi di spicco dei piscopisani nonché cugino di Pietro Giamborino. Galati si lamenta di D’Amico il quale aveva preso parte a dei lavori per la “mitigazione del rischio di frana della zona Nord della Frazione Piscopio nel Comune di Vibo Valentia” e, nonostante fosse stato agevolato dalla cosca, tardava a corrispondere il dovuto ai referenti locali. Galati chiede allora a Giamborino e Valia (i quali acconsentono) di tenerlo informato circa il pagamento sullo stato di avanzamento dei lavori alla ditta appaltatrice (la Si.Co.Edil srl) così da farsi due conti sui pagamenti a D’Amico. Alla luce di quanto emerge dalle indagini i carabinieri si concentrano sui fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico, tratti in stati di fermo questa mattina.
Secondo quanto riportano le indagini i due germani «emergevano quali espressione imprenditoriale latu sensu della cosca Mancuso, sia nel settore edile, che, soprattutto, con particolare riguardo al lucroso settore del commercio dei prodotti petroliferi», grazie alle creazione di un vero e proprio dedalo di società compiacenti.
Due fratelli, uno di 48 anni, Giuseppe e l’altro di 57 anni, Antonio. Il primo è il genero di Francesco D’Angelo, detto “Cicciu a Mmaculata”, chiamato in causa, anche recentemente, da svariati collaboratori di giustizia in qualità di “vecchio capo locale di Piscopio”. Antonio D’Amico ha sposato, invece, una Gallace, figlia di Salvatore Gallace, assassinato a marzo del 1993, e sorella di Francesco Gallace, assassinato a ottobre del 2003 nella cosiddetta “strage dell’Ariola”, uno dei vari episodi omicidiari che caratterizzarono la cruenta contrapposizione tra la cosca Loielo e la cosca Maiolo per l’ottenimento del predominio nelle serre vibonesi. Subito dopo l’omicidio del suocero Antonio D’Amico è stato tratto in arresto per false dichiarazioni alla polizia giudiziaria e poi scarcerato. I due fratelli (soprattutto Antonio, rappresentante legale della società Dmt Petroli) sono stati più volte deferiti, in stato di libertà, per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti; per violazioni di norme in materia di disciplina delle accise ed altre imposte indirette; per violazioni di norme in materia edilizia; per violazioni di norme in materia ambientale; per falsità in scrittura privata e sostituzione di persona; per bancarotta fraudolenta, in relazione alla fallita Dmt Petroli srl.
Piccoli precedenti. Ma i collaboratori di giustizia raccontano una storia ben più grave. Raffaele Moscato racconta che Giuseppe D’Amico era ben inserito in un sistema di controllo, da parte delle cosche, dei lavori pubblici presenti sul territorio. Legato ai Piscopisani forniva loro regalie di vario genere: fornitura gratuita di gas e carburante; prestito di somme di denaro, che in alcuni casi non veniva restituito; prestito di autovetture, utilizzate anche per commettere reati; regali di orologi di valore. Non solo. Avrebbe anche investito 50mila euro per acquistare, unitamente ad accoscati dei piscopisani, una partita di 10 chili di cocaina, oltre a fornire la propria auto per trasportare droga in Sicilia.
Andrea Mantella cala carte pesanti. Dice che l’attività imprenditoriale dei fratelli D’Amico viene alimentata con denaro investito in tale attività da Francesco D’Angelo, dai Mancuso, dagli Alvaro e dai Piromalli. Inoltre, tramite l’attività imprenditoriale nel settore del commercio dei prodotti petroliferi, Giuseppe D’Amico e Antonio D’Amico compiono ingenti truffe, attirando le attenzioni della criminalità organizzata (in primis i Mancuso, gli Alvaro e i Piromalli).
Il boss di Limbadi, il vertice dell’intera provincia di Vibo Valentia, era interessato al traffico di petrolio. Lo racconta il collaboratore di giustizia Giulio Fabio Rubino che incontra Mancuso nel 2014 per proporgli un traffico di stupefacenti. Ma si sente dire di no. «Non accettò perché impegnato in un traffico di petrolio». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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