REGGIO CALABRIA Dopo “Andrea Doria” e “Provvidenza”, la Dda di Reggio Calabria, nella parte dell’inchiesta “Petrolmafie Spa” dedicata alla provincia dello Stretto, scrive un’altra pagina diretta ad approfondire l’attuale egemonia delle cosche dei mandamenti Tirrenico e Jonico.
Alle inchieste citate si aggiunge inoltre la recente indagine “Chirone” attraverso cui sono emersi gli interessi dei gruppi criminale della Piana anche nel settore della sanità regionale. Questo testimonia una sempre più diffusa operatività del gruppo in termini «economico-imprenditoriali».
Come già spiegato dalla Guardia di finanza, che ha coordinato l’odierna indagine – e rimarcato dal procuratore capo Giovanni Bombardieri – quando si entra nel campo dei reati fiscali, ancor più se presupposto di sistemi finalizzati al riciclaggio o all’autoriciclaggio, il potere delle cosche di per sé non basta. Per questo si rende necessaria la compartecipazione, se non addirittura la regia, di soggetti che nell’immaginario comune vengono indicati come “colletti bianchi”: persone organiche al mondo dell’imprenditoria, spesso con specifiche competenze tecniche.
Nel filone reggino dell’indagine che ha visto impegnate ben 4 procure distrettuali, sono diverse le “famiglie” ritenute «da tempo legate ai clan mafiosi radicati sul territorio da decennali cointeressenze criminali», su tutte i Ruggiero e i Camastra. Nel ricostruire la filiera di affari e interessi che ruota intorno al settore dell’“Oro nero”, gli inquirenti scoprono un vero e proprio vespaio, che attira non soltanto i Piromalli, ma diverse “famiglie” anche di altri mandamenti, da quello Tirrenico, fino al mandamento Centro, che annovera alcuni tra i più potenti clan del capoluogo di provincia.
Già nel 2016, i pentiti Fondacaro, Mazzacuva e Furfaro avevano «affermato l’esistenza di un sistema di reimpiego di capitali illeciti ed usura, che coinvolgeva i membri della famiglia imprenditoriale dei Ruggiero» quali «intranei alla cosca “Piromalli-Molè”». Negli anni il giro d’affari sarebbe aumentato tanto da permettere alla cosca di acquisire «in forma monopolistica» i servizi di fornitura dei prodotti petroliferi all’interno del porto di Gioia Tauro attraverso la società “Kero Sud Srl”. Non solo: la cosca controllava anche la logistica dei container frigo in transito con la “Ruggiero Global Services Srl” e la “Reefer & Containers Service Srl”. Questo è il punto di partenza che ha portato all’indagine “Petrolmafie Spa”.
Sempre i collaboratori di giustizia, ai quali si è recentemente aggiunto Cosimo Virgiglio hanno evidenziato come «nel settore del riciclaggio di denaro e della distribuzione e trasporto dei carburanti petroliferi, maggiormente attivi sono “Don Vincenzino” Ruggiero, classe 35 e il figlio Gianfranco, classe 61, che rappresenta un “colletto bianco che ha spostato i propri interessi criminali nella città di Roma”» soprattutto dopo aver subito il sequestro di alcune società (quale appunto la “Kero Sud”). Ne proviene che la famiglia Ruggiero, grazie all’intreccio degli interessi del proprio gruppo con quelli delle cosche, riesce ad operare indisturbata nel settore della commercializzazione dei prodotti petroliferi.
I Camastra sono i «cavalli di punta» – come li definisce il boss Aquino – di ‘ndine del calibro dei Pelle, Cordì, Cataldo. Sono un gruppo imprenditoriale di Locri, «anch’essi operanti nel settore della distribuzione dei carburanti e al servizio delle “famiglie” di ‘ndrangheta del “mandamento Jonico”». Nello specifico la procura si sofferma sui fratelli Giovanni, classe 64 e Domenico, classe 71, che come emerge anche dalle intercettazioni e dagli approfondimenti di polizia, giocano un ruolo chiave nel sistema, fino a guadagnarsi la possibilità di intermediare anche a nome delle consorterie calabresi con i presunti emissari Camorristi, in tavoli di trattativa da cui emerge la collaborazione tra le consorterie oltre che qualche screzio dovuto alla collisione tra centri di potere che talvolta vede coinvolto proprio Giovanni Camastra, etichettato come “il Chiattone” dai campani.
La connivenza tra gruppi imprenditoriali e cosche è la base di “Petrolmafie Spa”, attraverso cui gli inquirenti disvelano l’esistenza di una struttura organizzata, «dotata di un meccanismo ben collaudato» e finalizzato all’evasione delle imposte Iva «in modo fraudolento e sistematico, attraverso l’emissione e l’utilizzo (improprio) delle “Dichiarazioni di Intento”».
Risulta infatti che una serie di società “cartiere”, affermando di poter beneficiare delle agevolazioni previste per il settore, abbiano presentato alla “Italpetroli Spa” la documentazione senza applicazione dell’Iva. A permettere tale possibilità è la presenza, quale rappresentante legale della società per azioni (con sede a Locri), di Antonio Casile, classe 69, identificato come «persona di fiducia di Giovanni Camastra». L’azione criminosa dell’organizzazione, scrive la procura, «si esplica attraverso la gestione del deposito fiscale della “Italpetroli” e delle relative forniture ad una serie di broker, che provvedono a vendere il prodotto ai clienti finali».
Quello che ne deriva è «un coacervo di sodali» che annovera anche esponenti della criminalità campana e siciliana, oltre che «della criminalità di stampo mafioso» dove insieme alle famiglie imprenditoriali menzionate, opererebbero, secondo la procura, anche personaggi come Giuseppe De Lorenzo, classe 75, «gestore per conto di esponenti di vertice della cosca Labate di alcune pompe di benzina a Reggio Calabria».
«Giovanni Ruggiero, lo zio di Vincenzino, aveva fatto da compare di anello a Mommo, al matrimonio di Mommo Molè, era stato il compare di anello di Girolamo Molè». Questo passaggio dell’interrogatorio reso dal pentito Pietro Mesiani Mazzacuva al pm Gelso lo scorso gennaio 2019 rende già di per sé il legame dei Ruggiero con le “famiglie” storiche del “mandamento Tirrenico”. Invero, non soltanto le dichiarazioni dei collaboratori si sprecano sul punto, quanto anche gli accertamenti della polizia giudiziaria lasciano poco spazio all’immaginazione. «Da semplici meccanici avevano fatto fortuna nell’imprenditoria, accaparrando ingenti ricchezze anche attraverso la loro vicinanza alle cosche egemoni sul territorio», scrive la Dda. Emblematica risulta anche una conversazione captata dallo Scico di Roma risalente al 31 maggio 2019: «[L’avvocato Gioacchino Piromalli] mi ha detto: “Ricordatevi che l’Andrea Doria non affonda mai” (…) pur sapendo che io avevo rapporti con loro» dice “Don Vincenzino Ruggiero” alla corrispondente. Durante la chiamata racconta una vicenda riguardante la fornitura di un ingente quantitativo di carburante. In quell’occasione “Don Vincenzino”, scrivono gli inquirenti, «si era preso l’ardire di rispondere al boss» della Piana: «Il problema è che se io ho, non affondate mai voi».
Nell’analizzare le fonti di prova, il gip Giovanna Sergi giunge ad una conclusione logica citando alcune dichiarazioni del pentito Arcangelo Furfaro: «È stato accertato come nessuno poteva aprire un distributore di carburante a Gioia se i Piromalli non volevano» posto che «il settore petrolifero locale era sotto il totale controllo dei Piromalli».
E se “Don Vincenzino” rappresenta in qualche modo la “genesi” del rapporto tra il gruppo imprenditoriale e le cosche, il figlio Gianfranco parrebbe esserne evoluzione. Nel processo “Porto”, scaturito dall’inchiesta riguardante l’illecito smaltimento di rifiuti solidi urbani, era uscito assolto per insufficienza di prove sebbene la Cassazione non avesse escluso né la sua estraneità, né quella della società “Kero Sud” rispetto ai circuiti criminali. Di fatti, scrive il gip, che dopo l’assoluzione nel suddetto procedimento, «i Ruggiero si prodigavano ad entrare dalla finestra dopo che erano usciti dalla porta, così permettendo alla ‘ndrangheta loro socia di infiltrarsi nelle attività imprenditoriali dell’area portuale». Nell’odierna indagine, viene quindi riscontrato l’utilizzo da parte dei Ruggiero «di un sistema di società “cartiere” mediante le quali venivano rilasciate false dichiarazioni di intento, quali esportatori abituali, consentendo ai clienti di non versare l’Iva per importi rilevanti».
I fratelli Giovanni Cosimo e Domenico Camastra sono «dominus di numerose aziende che compongono “l’impresa Camastra”» e rappresentano «le facce pulite delle consorterie criminali localmente radicate, che si servono di essi per incrementare i loro profitti illeciti». Soprattutto, l’“impresa” avrebbe permesso ad alcune tra le più potenti cosche del “mandamento Jonico” di inserirsi nel settore dell’“Oro nero”. «Così – scrive la Dda – gli esponenti apicali delle cosche sono riusciti ad aprire numerosi distributori di carburante nei quali investire i loro denari» potendo inoltre contare sull’appoggio dell’impresa «al fine di ottenere condizioni contrattuali di trattamento preferenziali rispetto a quelle di altri imprenditori» o per «ottenere gasolio di contrabbando a prezzi ben al di sotto di quelli reali di mercato e praticabili solo grazie al meccanismo che consentiva agli imprenditori di ottenere notevoli economie grazie all’omesso versamento Iva».
Celebre è diventata la conversazione intercettata il 17 agosto 2013 e finita nell’inchiesta “Acero” dove gli associati della cosca reggina degli Aquino così si esprimevano sui Camastra: «Che gli dovevi dire poi a questo? Questo per noi, sai che era? Un cavallo di punta, era come a Verdiglione». Tradotto: i Camastra erano il volto dell’associazione, la chiave che apre le porte all’esterno, soprattutto quando si ha necessità di riciclare ingenti quantitativi di denaro.
Di converso, a dimostrazione del reciproco scambio di interessi tra imprenditori e cosche, giungono lo scorso 7 marzo 2020 le dichiarazioni del pentito Antonio Russo secondo cui «gli Aquino erano dei “protettori” degli imprenditori Camastra», sebbene questi non fossero con tutta probabilità accostati ad una “famiglia” in particolare del “mandamento Jonico”. Un curriculum, quello degli imprenditori, che induce il gip a ritenere in capo a loro la sussistenza di «gravi indizi di colpevolezza per il reato di associazione mafiosa». Sono plurime le conversazioni captate e confluite in fascicoli d’indagine, alcuni anche datati, dove viene riscontrato l’interesse delle cosche nel settore della commercializzazione del gasolio. E i Camastra, scrive il gip, «erano i migliori referenti per le consorterie mafiose interessate al settore petrolifero». «Voi avete l’oro nelle mani», affermava Domenico Pelle nel 2010 che sottolineava come la cosca, in tal senso, fosse «coi fratelli Camastra». (redazione@corrierecal.it)
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