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«Nanotecnologie: per un’archeologia dello smartphone»

«Siamo ancora all’età della pietra! Lo smartphone è solo un sasso scagliato nel vuoto, la faccia di una rupe incisa da graffiti preistorici. Quel rettangolo luminoso, che tanto attrae i bambini (e…

Pubblicato il: 14/04/2021 – 8:23
di Francesco Bevilacqua
«Nanotecnologie: per un’archeologia dello smartphone»

«Siamo ancora all’età della pietra! Lo smartphone è solo un sasso scagliato nel vuoto, la faccia di una rupe incisa da graffiti preistorici. Quel rettangolo luminoso, che tanto attrae i bambini (e noi adulti de-cresciuti), è ancora un aggeggio rudimentale, un’illusione consolatoria e salvifica. Come nella religione: un bravo esegeta potrebbe perfino trovarne traccia nella Bibbia. Insomma nulla di veramente innovativo. Ben altro bolle in pentola!

Sappiamo che lo smartphone è il terminale di un immenso cervello informatico che elabora i nostri dati personali ed orienta i nostri acquisti, i nostri gusti, le nostre idee, le nostre azioni quotidiane. Siamo ormai polli da batteria le cui esistenze dipendono da algoritmi. E non è nemmeno il caso di scomodare la buonanima di George Orwell, troppo ingenuo per immaginare sino in fondo cosa sarebbe accaduto. Forse Aldous Huxley, grazie agli allucinogeni, c’era arrivato più vicino.

Ebbene, lo smartphone è già archeologia tecnologica. Ha un difetto che lo rende debole e antiquato: è distaccato dal corpo di chi lo usa; è qualcosa di esterno a noi; può essere lasciato in disparte, disattivato, spento. E se i terminali spenti fossero tanti, sarebbe l’apocalisse: il grande demiurgo informatico impazzirebbe. Perché oggi, una persona senza smartphone è “irraggiungibile”, e per questo non ha “valore”.

La mente umana può disconnettersi se il terminale informatico non le sta dentro. E questo è il punto crucciale: dobbiamo inventare qualcosa di più invasivo, di stabile, di in-corporato (che stia definitivamente nel corpo e non possa essere più espulso); occorre progettare qualcosa che prescinda dalla volontà di ciascuno di noi, dal gesto consapevole di accendere e spegnere il terminale. Perché vi è il pericolo che questa volontà possa ribellarsi in ogni momento. C’è bisogno di qualcosa che funzioni a prescindere, che sostituisca completamente la nostra volontà. È questa la nuova frontiera delle nanotecnologie. Perfino nelle università calabresi vi sono corsi e ricerche in questo settore. Ed un piccolo paese spopolato, nascosto fra le colline ioniche della Calabria, Gagliato, si fregia addirittura del titolo di “paese delle nanoscienze” sui cartelli stradali.

Ma cos’è la nanotecnologia? È quel ramo della tecnologia che si occupa del “controllo della materia” (!) su scala dimensionale nell’ordine del nanometro, ovvero un miliardesimo di metro. Lo scopo è progettare dispositivi o anche entità organiche infinitamente piccole. La cosa elettrizzante della faccenda è costituita dalle applicazioni più immaginifiche che si stanno studiando nelle migliaia di laboratori che in tutto il mondo si occupano di bioingegneria e di biologia molecolare. Ovviamente ci sono anche le nanotecnologie applicate all’informatica. Queste nuove scienze si prefiggono, a loro volta, di “modificare” la “vita” a livelli così piccoli da agire direttamente dal di dentro dei corpi. Ne aveva tracciato un quadro a tinte fosche sin dal 1998 Jeremy Rifkin nel suo “Il secolo biotech”, nel quale l’autore paventava, fra molto altro, il rischio eugenetico: la presunzione scientista di migliorare il patrimonio genetico degli organismi per mezzo della manipolazione del loro codice genetico. Per capirci: se ci fossero ancora i nazisti potrebbero seriamente pensare di produrre una popolazione di soli “ariani”. Ma, a distanza di ventidue anni dal libro di Rifkin siamo già molto oltre. I più ottimisti si sarebbero attesi scoperte clamorose, ad esempio, per prevenire l’origine genetica di certe malattie. E, magari, per impedire a virus devastanti di far danni nei nostri organismi: i vaccini a RNA messaggero (Pfizer e Moderna) sono esattamente un’applicazione delle nanotecnologie biologiche. Ma gli scienziati sono prevalentemente occupati nel produrre applicazioni che possano generare enormi profitti, a prescindere da qualunque eticità dei fini: dall’industria delle armi non tradizionali a quella della “programmazione” del personale militare, dalla gestione dei big-data all’informatica, sino ad arrivare al vasto campo della “sorveglianza”. Al punto che nel 1915 Yuval Noah Harari concludeva il suo “Homo Deus” con queste parole: “La scienza […] sostiene che gli organismi sono algoritmi e la vita è un processo di elaborazione dati. […] Che cosa accadrà alla società, alla politica e alla vita quotidiana quando algoritmi non coscienti ma dotati di grande intelligenza ci conosceranno più a fondo di quanto noi conosciamo noi stessi?” Dunque, si può sostenere, a buon diritto, che solo con l’avvento delle nanotecnologie stiamo uscendo dall’archeologia tecnologica. Tra vent’anni – forse prima – i nostri smartphone saranno esposti, come cocci di ceramica neolitica o pietre scheggiate, nei musei. Perché a quel punto i “messaggeri” in grado di farci diventare semplici esecutori di ordini neppure così subliminali, scorreranno direttamente nelle nostre vene o se ne staranno, comodamente accoccolati, nel nostro encefalo».

*Avvocato e scrittore

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