COSENZA Il boss Francesco Patitucci è stato condannato, in primo grado, alla pena dell’ergastolo. La decisione è giunta al termine del procedimento che lo vede coinvolto insieme al pentito Franco Pino (condannato ad otto anni di reclusione) nell’omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti. Patitucci(difeso dagli avvocati Marcello Manna e Luigi Gullo) è considerato responsabile dei due delitti, mentre Pino – che aveva respinto di essere mandante degli omicidi – è stato ritenuto responsabile almeno per quanto riguarda il delitto Gigliotti. I due indagati hanno scelto il rito ordinario e sono stati giudicati dai magistrati della Corte d’Assise di Cosenza.
La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, si era pronunciata sul duplice delitto di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti in merito alle posizioni degli indagati che hanno scelto il rito abbreviato. Il processo in primo grado si era concluso con la condanna a 30 anni di reclusione per Gianfranco Ruà (difeso dall’avvocato Marcello Manna) e Gianfranco Bruni (difeso dall’avvocato Luca Acciardi). A seguito del giudizio di primo grado, sia la procura antimafia che i legali degli imputati decisero di presentare appello. La procura, infatti, riteneva più giusta la pena dell’ergastolo. Nel corso del dibattimento sono state ascoltate le confessioni sia di Ruà che di Bruni in merito alle modalità di esecuzione dell’omicidio e alla partecipazione allo stesso. La Corte d’Assise, dopo la camera di consiglio e la requisitoria del procuratore generale che aveva invocato la pena dell’ergastolo ha dichiarato Gianfranco Bruni e Gianfranco Ruà colpevoli dei reati a loro ascritti ma ha riconosciuto le attenuanti generiche sulle aggravanti confessate e rideterminato la pena in 20 anni di reclusione.
Il racconto dei delitti di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti è stato stravolto, sicuramente rispetto a quanto riportato dalle cronache quel febbraio del 1986. Gianfranco Bruni, nel corso del procedimento, ha raccontato una nuova versione dei fatti. «Io di questo duplice omicidio non ne ho mai parlato con nessuno» ha ribadito più volte ai due avvocati dell’imputato Francesco Patitucci, i legali Marcello Manna e Luigi Gullo, ribadendolo con forza ai giudici togati. E così per Gianfranco Bruni – come sostenuto e dimostrato dall’avvocato Acciardi – i due ragazzi, non morirono a casa di Francesco Patitucci durante un pranzo dopo l’uccisione del maiale ma lungo la vecchia strada che collegava l’area urbana di Cosenza con Paola, passando per Falconara Albanese.
«Ero uscito da poco dal carcere – racconterà Bruni nel corso del processo – venne da me Demetrio Amendola e mi disse che dovevamo fare una cortesia ad Antonio Sena». Lo storico boss della ’ndrangheta cosentina reggente della cosca che ne porta il nome insieme a quello di Franco Pino era stufo delle scorribande di Marcello Gigliotti. Lo sgarro per cui avrebbe pagato con la vita è una rapina ad un caro amico di Sena. «Io rispondevo solo agli ordini di Franco Pino – aggiunse Bruni -. Per questo, durante un’udienza del processo “Tre Provincie” al tribunale di Palmi andai da lui per vedere se fosse d’accordo con l’uccisione di Gigliotti. Non ne parlammo apertamente, non avremmo potuto dato il livello di sorveglianza, ma seppure non mi disse in modo esplicito di procedere io capii che il delitto poteva essere compiuto». All’epoca Gianfranco Bruni aveva 23 anni. «Gigliotti si fidava di me, lo stesso Lenti – continuò nel racconto – per questo decidemmo che io ero la persona deputata a chiedergli un appuntamento». La scusa sarebbe stata quella di fare un sopralluogo per mettere a segno una rapina. E quindi Bruni avrebbe così dato appuntamento a Francesco Lenti il quale poi avrebbe avvisato anche Marcello Gigliotti. È così che i due sanno che dovranno percorrere gli ultimi chilometri della propria vita prima di arrivare all’appuntamento con la morte.
Lungo la strada che porta a Falconara però, secondo quanto riferito nel corso del processo da Bruni, si trovavano anche altre due persone: Gianfranco Ruà e Demetrio Amendola, quest’ultimo venne ucciso in seguito. «Quando Gigliotti scese dalla macchina – riferisce Bruni – venne freddato da un paio di colpi di fucile. A sparare è stato Ruà. Lenti non volevamo ucciderlo ma, dopo aver assistito alla scena, è andato di matto. Avevamo paura che andasse a raccontare tutto ai carabinieri». Legato e messo in macchina «ancora mezzo vivo» arrivati in una strada impervia decisero che fosse arrivato il momento di dare alle fiamme l’autovettura e il cadavere. «Era molto buio – proseguì Bruni in veste di testimone – Lenti era molto agitato e Amendola lo colpì con l’ascia. Fatti fuori i due, la macchina poi venne data alle fiamme e ritrovata qualche tempo dopo in uno scenario tutto innevato. La fotografia scattata all’epoca è diventata poi emblema dei processi che si sono celebrati.
x
x