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L’INCHIESTA

I rapporti tra i Pesce e le forze dell’ordine. «Se ne fotte dei doveri d’ufficio»

Gli investigatori ricostruiscono le condotte di agenti e militari infedeli. Dalle “soffiate” alle «ricompense» per chiudere un occhio

Pubblicato il: 20/04/2021 – 20:30
di Francesco Donnici
I rapporti tra i Pesce e le forze dell’ordine. «Se ne fotte dei doveri d’ufficio»

REGGIO CALABRIA L’egemonia dei Pesce sulla Piana di Gioia Tauro e in special modo nella città di Rosarno va calibrata oltre che sul blasone criminale dei suoi componenti anche sulla «capacità di allacciare relazioni con istituzioni giudiziarie» e forze dell’ordine.
Rapporti spesso finalizzati ad ottenere informazioni riservate, “soffiate” o anche solo per permettersi quell’impunità necessaria a poter perpetrare i propri affari preservano il controllo del territorio.
Anche per questo il questore Bruno Megale, nello specificare la parte d’indagine che coinvolge anche esponenti delle forze dell’ordine è stato risoluto nell’affermare che «non si può guardare in faccia a nessuno» e «fare pulizia laddove necessario».
Sono diverse le condotte passate al vaglio della procura guidata da Giovanni Bombardieri e confluite nell’indagine nata dall’unione dei filoni “Handover” della polizia e “Pecunia Olet” di carabinieri e guardia di finanza.
I primi fatti che lasciano intuire la presenza di una “crepa” tra le forze dell’ordine risalgono al 28 ottobre 2015. In quell’occasione, Filippo Scordino, classe 75, avrebbe confidato a due ignoti interlocutori quanto appreso da un Poliziotto sui criteri adottati per individuare i soggetti da sottoporre a controllo di polizia. «Si perché…quando fanno focus ‘ndrangheta…a me lo disse un poliziotto…ha detto i primi casi che prendono…sono quelli che hanno fatto gli ultimi reati negli ultimi giorni… eh vanno.. .hai capito?»
Il presunto affiliato ritenuto «alter ego di Marcello Pesce» fa riferimento al programma ministeriale dimostrando di essere riuscito «a carpire informazioni che per ragioni d’ufficio dovevano rimanere segrete». Un assunto che innesta negli inquirenti il seme del dubbio di una fuga di informazioni tra gli uomini in divisa.

La rivelazione delle attività di indagine

Gli investigatori mettono a referto una serie di condotte per le quali la procura non ha richiesto l’applicazione di misure cautelari. «Tuttavia – si legge nell’ordinanza firmata dal gip Vincenzo Quaranta – i fatti che emergono delle risultanze di indagine lasciano facilmente ritenere che alcuni esponenti dei “Pesce” riescano ad allacciare relazioni» e «ottenere informazioni non disvelabili perché coperte da segreto investigativo o d’ufficio, anche su indagini in corso».  
Quest’ultimo è il caso che riguarda l’appuntato di Vibo, Gianni Caridi, classe 59.
L’intercettazione risale al 9 febbraio 2017, nei locali della “Getral”. A parlare è Antonio Messina, classe 79, autotrasportore già interessato nel 2014 dall’operazione “Porto Franco” (contro le cosche Pesce e Molè). Oggetto della conversazione con Scordino e un altro soggetto è un episodio che riguarda alcune informazioni rivelategli dal militare conosciuto in quanto «vicino di casa» prima del suo trasferimento. «Ma qualche volta esce che…inc.. ..inc…se ho il telefono sotto controllo mi esce che…inc…? L’importante è che esce, così lo sanno lì. Lo sai chi è? Gianni Caridi, l’appuntato di Vibo. Lo conosci?»
Nel racconto, Caridi avrebbe rivelato a Messina che il suo telefono era sotto controllo da parte delle forze dell’ordine. Motivo in più, per Scordino, per ritenerlo «un bravo cristiano» proprio in considerazione «del fatto – scrive la procura – che non si faceva scrupoli a violare i suoi doveri d’ufficio». «Sì, se ne fotte…» rincara l’interlocutore.

I trattamenti di favore e le «ricompense»

Un altro episodio, più recente, riguarda sempre elementi raccolti in prima battuta nell’ambito dell’operazione “Recherche”. Per comprendere il contesto va richiamato il passaggio dell’indagine dove si fa accenno all’“agenzia di Rosarno”, un «direttorio» di cui facevano parte «con ruoli dirigenziali Marcello Pesce, Rocco Rachele insieme a Filippo Scordino». Il livello operativo era rappresentato da alcune articolazioni: «La “Getral” riconducibile a Rocco Rachele, la ditta individuale di mediazione nei trasporti di Scordino, l’azienda dei Fratelli D’Aloe di Nicotera, infine, gli autotrasportatori che operavano nel territorio di Rizziconi in stretto accordo con l’agenzia». L’attività di trasporti gestita da Scordino – e nello specifico un suo dipendente – fa risalire gli inquirenti a Gregorio Faro, poliziotto in servizio alla sottosezione di polizia stradale di Palmi. I contatti tra l’uomo alle dipendenze della ditta di Scordino e l’agente sono frequenti.
Il 4 novembre 2015 a Faro viene chiesto «un trattamento di favore in occasione di controlli effettuati dalla Stradale a carico di suoi colleghi».
Il 17 gennaio 2016, di intervenire per mediare la situazione ad un posto di controllo: «Mi hanno fermato all’ uscita di Gioia, la polizia e sta chiamando la stradale!». Appreso che era stato chiesto l’intervento della stradale, Faro si sarebbe attivato per fare in modo di intervenire lui direttamente: «A Mannaia li diavoli, Mannaia, hanno chiamato la stradale è capace che vengo io ora». Intervento che nei fatti non era stato richiesto. Motivo che avrebbe spinto Faro a prodigarsi per dare informazioni utili da far mettere a verbale: «Allora – si ascolta nell’intercettazione – la bambina piangeva intensamente e l’ho presa in braccio per pochissimi attimi, mi riservo di fare ricorso punto, poi ci vediamo».
Il 10 febbraio 2016, Faro viene interpellato dopo che un camion è stato «pizzicato allo svincolo di Palmi». A quel punto l’agente chiede di farsi «dare il numero di targa della pattuglia, digli di non farsi vedere, la macchina come è targata». Appreso il nominativo del collega che aveva fermato il mezzo, Faro richiama «rimproverando l’interlocutore di averlo chiamato quando ormai i verbali erano già stati ultimati».
Tra le ipotesi di reato, gli inquirenti contestano a Faro anche di aver fatto uso di un’informazione ottenuta dalla Banca dati Aci in violazione delle disposizioni di legge.
Secondo la pg, lo zelo dimostrato dall’agente era legato ad alcune “ricompense”. «Oltre la fornitura di frutti di vario genere – scrivono – otteneva, in cambio dei favori resi, una serie di controprestazioni» come ad esempio l’aiuto per svolgere dei lavori nell’appezzamento di terreno di una sua conoscente o l’intermediazione per far assumere la figlia della donna in un bar.

«Una telefonata anonima»

In un’altra circostanza Filippo Scordino racconta che il 27 ottobre 2015 avrebbe subito una perquisizione in quanto una fonte anonima aveva avvertito la polizia del fatto che potesse trasportare droga. «…e tu dirai: “Ma come fai a saperlo?”…perché il poliziotto poi era il fratello di un ex giocatore che giocava a Rosarno…che io conoscevo…e ho voluto informarmi per vedere…mi dice: una telefonata anonima…che hai droga!»

La fuga di informazioni durante la latitanza di Marcello Pesce

Altri episodi riguardano la cattura di Marcello Pesce. Durante la latitanza venivano monitorati i suoi congiunti «nella prospettiva che potesse incontrare i figli».
Da qui gli inquirenti risalgono a Ferdinando Ciuiuli, in servizio al commissariato di Gioia Tauro. «Ciò che insospettiva – secondo gli investigatori – era che Marcello Pesce acconsentisse a far accompagnare i suoi figli al mare o nei locali pubblici, da un rappresentante delle Forze dell’ordine che avrebbe potuto, astrattamente, sfruttare tale vicinanza per carpire informazioni sul suo conto».
Da qui la decisione di seguire il poliziotto scoprendone la presunta «”sudditanza” verso le ‘ndrine di Rosarno, probabilmente giustificata dalla necessità di favorire le attività commerciali della moglie». Gli inquirenti ricostruiscono un viaggio in cui Ciuiuli avrebbe accompagnato la figlia di Marcello Pesce al Mc Donald’s di Gioia Tauro fermandosi, per prelevarla, nei pressi dell’abitazione che si scoprirà essere il covo del latitante. Circostanza che non appare nota a Ciuiuli stando alla ricostruzione degli inquirenti ed alcune sue conversazioni successive.
Qualche tempo dopo l’agente rivela ad alcuni colleghi giunti dal nord di essere venuto a conoscenza da un collega della Squadra Mobile che sul viaggio di quella sera era stata trasmessa una relazione di servizio sul suo conto. La rivelazione era avvenuta prima della cattura del latitante (dicembre 2016), mettendo apprensione negli investigatori: «Sebbene, infatti, l’informazione fosse stata comunicata da un collega ad un altro poliziotto, il rischio scaturiva dal fatto che Ferdinando Ciuiuli era un soggetto che non faceva parte dell’ufficio titolare dell’indagine». Il collega che avrebbe rivelato la notizia a Ciuiuli sarebbe stato individuato in Domenico Cimadori, classe 72, «essendo colui che all’epoca curava le indagini per la cattura di Marcello Pesce». Gli investigatori hanno anche evidenziato i diversi contatti telefonici tra i due – amici di vecchia data secondo quanto è possibile apprendere dalle conversazioni – nel periodo in cui Cimadori lavorava all’Unità Distaccata di Gioia Tauro della sezione “Criminalità Organizzata e Catturandi” della squadra mobile.
Nell’informativa del 30 settembre 2019 viene riportato come «le evidenze probatorie raccolte sul conto di Ciuiuli consentono di poter affermare che egli, in diverse circostanze, […] ha violato il dovere di segretezza e di riserbo sulle attività della polizia, giungendo in un caso a garantire il buon nome di una persona fermata nel corso di un posto di controllo operato da una pattuglia del commissariato di Gioia Tauro» o, in altra circostanza, prodigandosi per facilitare la pratica di rilascio del passaporto ad un soggetto imparentato coi Pesce. Non solo. Il 17 febbraio 2016, Ciuiuli, impiegato in un servizio di controllo delle aziende agrumicole di Rosarno contatta un altro soggetto per chiedere lumi «sul luogo dove aveva sede l’azienda di un comune amico», ovvero la medesima persona interessata del rilascio del passaporto.
Ancora, tra le condotte evidenziate dagli investigatori, spicca quanto avvenuto il 16 settembre 2016, quando una pattuglia del commissariato di Gioia Tauro aveva fermato la vedova e la figlia di Rocco Gaetano Gallo, «elemento di spicco della cosca “Bellocco”» perché – ipotizzano gli investigatori – quest’ultima parlava al telefono mentre era alla guida. Poco dopo, Ciuiuli arriva al posto di controllo garantendo «per il buon nome della persona fermata»: «Tutto a posto…li conosco io». (redazione@corrierecal.it)

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