CATANZARO «Rimane sulla 106, un po’ più avanti di Monasterace, sulla destra.. Molo 13 mi pare (…) questo qua era Franco, questo nipote acquisito da Bruno Gallace, e un altro che ha un Fiorino bianco. Lui è venuto a prendersi la droga da Brandimarte».
È il collaboratore di giustizia, Antonio Femia, tratto in arresto nell’operazione “Santa Fe’” a fornire agli inquirenti diversi spunti investigativi. Dichiarazioni fondamentali per costruire il castello di accuse nei confronti delle persone arrestate nel corso del blitz “Molo 13”, inchiesta firmata dal procuratore capo Nicola Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Capomolla e dalla pm Debora Rizzo.
Femia è una importante fonte di informazioni per gli inquirenti. Il broker del narcotraffico, infatti, è in contatto con una miriade di soggetti (anche stranieri) tutti implicati nell’imponente business del narcotraffico internazionale, dotato anche di importanti contatti all’interno del porto di Gioia Tauro, e in grado di relazionarsi con i vari appartenenti ai cartelli di narcotrafficanti spagnoli e latinoamericani, grazie alla sua padronanza della lingua spagnola. Le sue dichiarazioni hanno riguardato in particolare il clan di ‘ndrangheta dei Gallace di Guardavalle che, secondo Femia, si occupavano «direttamente del trasporto di droga dal Belgio in Lombardia, dopo aver acquistato ingenti quantitativi di droga dal Sud America». Antonio Femia, però, fa esplicito riferimento a Bruno Gallace, arrestato nel blitz e, secondo la sua conoscenza, «in grado di importare rilevanti quantitativi di sostanza stupefacente – in particolare cocaina – sbarcati nei principali porti del Nord Europa». Circostanza poi emersa nel corso dell’indagine.
È nell’interrogatorio del 20 luglio 2015 che Femia fornisce i primi importanti dettagli. A cominciare dal ruolo di Antonio Campanella. «Bruno Gallace si serviva di Campanella per i documenti che portava a me ed io portavo a Brandimarte, sono stati fatti due lavori dall’Argentina, 60 e 60. Poi le cose si bloccarono perché arrestarono a Bruno che lavorava con i nipoti Tommy e Franco (…) avevano un ristorante quello come si arriva sulla destra, non ricordo come si chiama».
«C’era Franco, il nipote di Bruno, non mi ricordo il cognome e l’altro che serviva ai tavoli è venuto a servirci al tavolo. Poi lo guardavo ma non ci conosciamo? Mi sembra di sì gli ho detto io.. hai un Fiorino bianco? Sì, ah ecco..». I dettagli forniti agli inquirenti da Femia, dunque, fornivano importanti spunti investigativi nei confronti di Bruno Gallace, ma anche i nipoti Tommy e Franco che avevano partecipato in prima persona al recupero di una partita di stupefacenti. Oltre a Bruno Gallace, dunque, gli inquirenti individuano Salvatore Pupo (Tommy) e Francesco Aloi (Franco), marito della figlia di Vincenzo Gallace, fratello di Bruno, non coinvolti in questa inchiesta.
È ancora Antonio Femia a fornire importanti dettagli in merito al “Molo 13”, locale dismesso situato sulla SS 106 a Guardavalle Marina. Che il locale fosse un centro nevralgico per gli affari del clan Gallace era già emerso nel corso del ritrovamento all’interno di una botola ricavata sotto una cella frigorifera, dei latitanti Nicola Tedesco e Francesco Aloi, all’epoca indagati e coinvolti nell’inchiesta “Itaca – Freeboat”.
Le dichiarazioni rese da Femia il 28 luglio 2015, aiutano gli inquirenti a ricostruire gli affari di Bruno Gallace, Salvatore Pupo e Francesco Aloi, che riguardavano l’importazione di due partite di cocaina da 60 kg ciascuna, andata a buon fine.
Il 19 agosto 2015, inoltre, Femia delinea le caratteristiche di un altro affare, questa volta da 300 kg, risalente a gennaio dello stesso anno, nel quale era coinvolta la famiglia Gallace.
«So che loro hanno fatto un lavoro, questo quando ero latitante (…) lo so perché è stato fatto a Livorno con il container, 300 chili, so tutto questo perché c’erano immischiati i Gallace dove c’è tale Mario Palamara». Quest’ultimo, finito anche lui in carcere nel corso dell’inchiesta, sarebbe per gli inquirenti il trait d’union con tale “Ciccio Gallace” nell’importazione della droga. «Durante la mia latitanza – racconta Femia – nell’autunno del 2014, Mario Palamara ha favorito il mio incontro con una persona che mi è stata presentata come Ciccio Gallace (…) si discuteva della possibilità che io investissi delle somme di denaro nel traffico di droga». «Poiché Palamara insieme a Ciccio Gallace già operavano, facendo giungere droga sia nei porti italiani che quelli esteri, compreso quello di Anversa, Palamara mia ha dato la possibilità di investire in una di queste operazioni».
Attraverso le dichiarazioni rese da Femia è stata avviata l’attività di indagine che, con il blitz coordinato dalla Dda, ha consentito di ricostruire la complessa organizzazione criminale con base a Guardavalle, facente capo tra gli altri a Cosimo Damiano Gallace che, dopo l’arresto dei fratelli Bruno e Vincenzo, aveva assunto un ruolo apicale all’interno del clan. Individuato, inoltre, Ciccio Gallace, da identificarsi in Francesco Riitano, soggetto già incontrato da Femia nel 2010 in occasione di un affare legato all’importazione di droga dal Sudamerica. «In quelle occasioni – racconta Femia – aveva la disponibilità di una Fiat 500 L di colore bianco (…) sapevo che Ciccio Gallace e Tommy, il nipote di Bruno, si recassero spesso in Germania, così come in Olanda e in Belgio sempre per fatti relativi al traffico di droga».
Le dichiarazioni del collaboratore Antonio Femia hanno trovato conferma anche in quelle di Antonino Belnome, storica figura di riferimento in Brianza della ’ndrangheta e coinvolto nell’operazione “Infinito”. «Prima del mio arresto avvenuto nel 2010 – racconta al pm – e dopo l’omicidio Novella, ricordo che Vincenzo Gallace è venuto a trovarmi a Milano e ha alloggiato in un appartamento di mia proprietà. In quell’occasione io, Vincenzo Gallace e Salvatore Pupo ci siamo recati ad un incontro con un soggetto per trattare la fornitura di cocaina. Era un soggetto straniero che abbiamo incontrato vicino a Legnano».
«I Gallace – racconta ancora il pentito – sono coadiuvati in modo fattivo ed operativo dai Vitale detti “i Manganari”, da Ciccio Riitano e Salvatore Pupo (…) Abitualmente i Gallace importavano la cocaina in Italia dall’Olanda mediante delle autovetture, con una cadenza di due volte al mese per quantitativi seppur significativi ma non particolarmente elevati. Si trattava di decine di kg di cocaina che viaggiavano in auto, solitamente due. Una vuota che faceva da apripista e l’altra con il carico».
Belnome, inoltre, fornisce ulteriori dettagli sul ruolo assunto da Bruno Gallace, vero e proprio broker: «Posso dire che io stesso, insieme a Bruno, mi sono attivato per trovare i riferimento criminali che ci consentissero di fare arrivare delle forniture di stupefacente presso il porto di Gioia Tauro. In tal senso abbiamo avuto anche contatti con la famiglia Bellocco di Rosarno». Belnome parla poi di «un quantitativo di 120 kg arrivato al porto di Gioia Tauro» ma anche di riferimento che operavano in Germania. «Ricordo – spiega – che io stesso ho incontrato un soggetto che era colui che curava l’arrivo di un quantitativo di droga proveniente dal Sudamerica. Si trattava di un soggetto che parlava bene sia l’italiano che il tedesco». (redazione@corrierecal.it)
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