LAMEZIA TERME La cosca Mancuso aveva taglieggiato un imprenditore attivo nel settore delle costruzioni. Emanuele Mancuso racconta che il boss Luigi Mancuso e il capocosca di Zungri, Peppone Accorinti, dovevano spartirsi 50mila euro provenienti dal taglieggiamento di questo imprenditore che aveva un’impresa vicino all’autostrada. A mettersi in mezzo a questa estorsione, creando attriti nella famiglia, è Francesco Mancuso, detto “Tabacco”, secondo il quale «l’imprenditore in questione non doveva esser toccato in alcun modo perché a suo dire “stava con loro da più di 20 anni”, per cui se c’erano soldi da prendere spettavano soltanto a lui». Questo ha riferito durante un interrogatorio reso il 25 novembre scorso, il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone detto “l’ingegnere”. L’argomento è stato affrontato nuovamente oggi nell’aula bunker di Lamezia Terme nel corso del maxiprocesso “Rinascita-Scott”.
«La somma – ha ribadito Emanuele Mancuso – era già stata pattuita e doveva andare a Luigi ma Francesco Mancuso detto “Tabacco” blocca questa dilazione di pagamento e, in buona sostanza, i due proprio non andavano d’accordo (si riferisce a Luigi e Francesco Mancuso, ndr)». Questa somma doveva essere così ripartita: 25mila euro a Peppone Accorinti e 25 ripartiti tra Luigi Mancuso e Pantaleone Mancuso “l’ingegnere”. «In buona sostanza – dice Mancuso – mio zio Francesco era l’unico della famiglia che non andava d’accordo con Luigi. E non c’era verso, anzi, lui voleva vendicarsi del tentato omicidio subito nel 2003: voleva uccidete Totò “Yoyò” (Antonio Prenesti, ndr)». La famiglia di Emanule Mancuso premeva per avere i soldi dell’estorsione ma alla fine «che io sappia la mia famiglia non prese nulla. Francesco Tabacco fu risoluto e suo figlio Domenico, detto “Tequila” ancora di più, fu acido proprio, disse: “assolutamente non si discute”». Secondo il collaboratore Francesco Mancuso e il suo ramo «odiavano la dinastia degli 11, a causa del fatto omicidiario che avevano subito. Lo stesso Luigi Mancuso che pure «era una calamita e tendeva a riunire sempre tutti, mi parlò sempre male di “Tabacco”».
In una occasione Francesco Mancuso chiese al nipote Emanuele se avesse armi a portata di mano perché gli servivano «contro quel gran cornuto di Totò Yoyò».
«C’erano delle cointeressenze tra Francesco Mancuso e la signora (si riferisce a Rosamaria Pugliese, ndr) anche perché la signora ovunque andasse si presentava come una Mancuso e a Gioia Tauro non si può aprire una colonnina di carburante senza il consenso dei Piromalli-Molè-Sdanganelli». «Certamente – racconta il collaboratore nel verbale – mio zio Francesco gli avrà indicato come fare e dove andare per aprire una colonnina in quel territorio».
Ma anche la famiglia di Emanuele Mancuso aveva interessi nel settore dei carburanti. Il collaboratore racconta di un incontro tra l’ambasciatore del Congo e suo padre. Il periodo Mancuso lo inquadra sulla base delle vicende giudiziarie della proprio nucleo familiare: in quel periodo suo padre era stato rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame, su rinvio della Cassazione, dopo essere stato sottoposto a fermo, su richiesta della Dda, per il tentato omicidio commesso, secondo l’accusa, col figlio Giuseppe Salvatore, nei confronti della zia Romana Mancuso e del figlio Giovanni Rizzo. In quella parentesi di libertà Pantaleone Mancuso “l’ingegnere” incontrò – racconta il collaboratore – l’ambasciatore del Congo. «Mia madre mi riferì che mio padre sarebbe entrato ad investire nel business del petrolio», dice Mancuso che ricorda che il funzionario portò anche numerosi passaporti diplomatici. Su questo argomento però è intervenuto il veto a proseguire le dichiarazioni del sostituto procuratore Annamaria Frustaci. Sulla vicenda vige il segreto istruttorio perché ci sono indagini in corso.
Anche lo zio Giovanni Mancuso era entrato, secondo quanto racconta il collaboratore, nell’affare dei carburanti e gestiva una colonnina IES. «L’attività imprenditoriale era stata interrotta per dei diverbi nati con i fornitori siciliani. Il tentativo di risolvere la questione veniva intrapreso da Giovanni Mancuso per il tramite del figlio Giuseppe e Peppe Rizzo. Questi si recarono in Sicilia per parlare con i siciliani, dopo l’attesa di otto ore, l’incontro non si concretizzò», riporta a verbale Mancuso che ricorda che la cosa gli venne raccontata direttamente dal cugino Giuseppe Mancuso il quale avrebbe commentato che i siciliani non si erano presentati «per paura». «Mio cugino Giuseppe era avvelenato perché pretendeva 32mila euro dal gestore della colonnina che sarebbe il compagno della sorella. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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