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l’inchiesta

Così la ‘ndrangheta controllava i lavori al porto di Gioia Tauro. «San Ferdinando è casa nostra»

La spartizione del territorio. I contrasti tra le “anime” della cosca Pesce. L’imposizione delle ditte e i proventi per latitanti e detenuti

Pubblicato il: 22/04/2021 – 12:05
di Francesco Donnici
Così la ‘ndrangheta controllava i lavori al porto di Gioia Tauro. «San Ferdinando è casa nostra»

REGGIO CALABRIA «Là è casa nostra». Uno dei “giovani” della cosca Pesce si dimostra risentito per l’esondazione delle pretese estorsive della cosca “Molè” sui lavori del porto di Gioia Tauro che ricadono nella zona del Comune di San Ferdinando. Quale che sia la “competenza territoriale” di una o dell’altra cosca, una cosa appare chiara: per lavorare al porto hai bisogno della loro «protezione».
Così le cosche controllano i lavori, lucrano sugli stessi attraverso le estorsioni e si spartiscono i proventi a seconda delle esigenze, spesso legate al sostentamento dei latitati e delle famiglie dei sodali in carcere. Un quadro che emerge chiaro dal lavoro degli investigatori nell’ambito dell’inchiesta “Handover”-“Pecunia Olet” coordinata dalla Dda di Reggio Calabria. Trame che dimostrano come la cosca “Pesce” si stesse riorganizzando, anche attraverso i propri rampolli, per riconquistare il blasone scalfito dall’operazione “Recherche” del 2017.

I lavori al terminal intermodale

Nell’estate del 2017 la squadra mobile di Reggio Calabria viene a conoscenza di un possibile attentato incendiario ai danni di una ditta del Cosentino  impegnata in alcuni lavori (realizzazione di un capannone industriale) nell’area portuale di Gioia Tauro, nella zona che ricade in parte nel Comune di San Ferdinando.
Gli approfondimenti permettono di rilevare la presenza di un secondo cantiere attivo per la realizzazione del “terminal intermodale” i cui lavori erano stati affidati dall’Autorità Portuale ad un’azienda milanese e da quest’ultima a un’associazione temporanea d’imprese lombarde e locali.
Le indagini permettono di riscontrare la presenza, nei cantieri, di mezzi e soggetti riferibili anche ad altre ditte, su tutte quelle facenti capo agli imprenditori Perrone e Loiacono.
Oltre alla “Perrone Costruzioni” e alla “Impresing Srl” facente capo a un nipote di Giuseppe Perrone, classe 64, attiva come sub-appaltatrice nei lavori del “terminal” è anche l’impresa facente capo alla famiglia Loiacono. Schema che si estrae da un discorso del titolare della ditta appaltataria bergamasca, che indicava come propri referenti per i lavori al porto di Gioia Tauro, «Andrea Loiacono (classe 63, non indagato nel presente procedimento, ndr) e Giuseppe Perrone, pur essendo le ditte subappaltatrici dei lavori intestate ai nipoti».
«Tutti e tre – dice – hanno i nipoti che hanno intestato tutto e loro si chiamano uguali ai loro nipoti…chissà perché…è proprio un male della Calabria».
Da alcune captazioni emerge anzi che Loiacono aveva estromesso le ditte facenti capo a Giuseppe Perrone dai lavori con specifico riguardo alla posa delle betonelle e alla bitumazione di alcune zone del piazzale.

L’imposizione dei sub-appalti

Le ditte sub-appaltatrici venivano scelte e imposte dalle stesse cosche perché garanzia dell’eventuale remunerazione. Di fatti, il titolare della ditta appaltataria in una captazione si sfoga sostenendo che fosse, scrive la procura, «cominciata la solita trafila anche per il nuovo appalto concernente il rifacimento della banchina sud del porto di Gioia Tauro».
«A Loiacono l’ho messo al muro – te hai rotto i coglioni adesso, sai che qua sei l’unica persona che sei venuto qua.. .quello che c’è scritto lì non hai mantenuto niente…niente…né tempi né niente e poi vieni qua e mi dici “faccio fare questo”». L’imprenditore lamenta l’atteggiamento di uno dei referenti delle ditte sub-appaltatrici che, nonostante le negligenze, si era presentato per ottenere i lavori anche per questo nuovo appalto. Ma la scelta pareva quasi obbligata in quanto l’affidamento degli appalti a Loiacono era «sponsorizzato dalle cosche». I Pesce definivano l’imprenditore come «soggetto che si era sempre dimostrato disponibile nei loro confronti e che, pertanto, avevano tutto l’interesse a far lavorare in sempre più subappalti».
Stesso discorso declinato su Perrone. L’imprenditore lombardo spiega come le imprese sub-appaltatrici si facessero «rispettare» dai mafiosi: «Personaggi così dopo dire che non sono mafiosi, non sono mafiosi, non sono mafiosi si fanno rispettare, e soprattutto cosa hanno…? Che alla fine è la sua forza…dopo che loro abbiano fatto il piacere alla mafia, sicuro, gli hanno detto: c’è da andare là, fai la buca!»
Emerge allora che per lavorare in Calabria, in specie nella zona del porto, è necessario poter «usufruire di protezioni» che si acquistano attraverso la corresponsione del “pizzo”. Così era stato anche per la ditta appaltataria quando Giuseppe Perrone lo aveva aiutato dopo aver ricevuto le visite di diversi affiliati: «Prendiamo un caffè…inc…chi ti sta assillando: questo, questo, questo…ine…fine, morti…, scomparsi, non c’è più nessuno…no».

La spartizione del territorio tra le cosche

La zona del porto, come chiarito da diverse indagini è appannaggio quasi esclusivo dei “Piromalli-Molè” e delle cosche di Rosarno. La prima zona industriale, dove si svolgevano i lavori, ricadrebbe nel territorio di “competenza” dei “Pesce”.
Il 19 ottobre 2017 viene captata una conversazione tra il rampollo Antonino Pesce, classe 93 e Salvatore Ferraro, classe 97, dove si discute della divisione dei proventi delle estorsioni connesse ai lavori del terminal del porto. Secondo i Pesce, i Molè non avevano diritto di partecipare a quelle estorsioni. «Che questo dice (Pesce riferendosi al figlio di Molè, ndr) e ma spartiamo sempre tra Gioia e Rosarno nella banchina le cose del porto, là è San Ferdinando gli ho detto io, quando è dentro Gioia spartiamo perché là tocca a noi, e a San Ferdinando a voi non vi tocca gli ho detto io».A detta di Antonino Pesce esisterebbero dei “patti” tra le consorterie per cui la «ripartizione riguarda solo i lavori eseguiti nel territorio comunale di Gioia Tauro» e non anche di San Ferdinando.

La riscossone del “pizzo” e gli screzi tra le anime della cosca Pesce

Da una conversazione tra Antonino Pesce, classe 93 e Francesco Giovinazzo, nipote di Giuseppe Priolo, deceduto a seguito di un agguato nel 2012, durante la nota faida con i “Brandimarte”, emerge come la cosca si attivasse per chiedere il denaro agli imprenditori. Giovinazzo è ritenuto «il mediatore delle pretese estorsive», anche a fronte delle preoccupazioni manifestate da alcuni degli imprenditori coinvolti. I Perrone erano infatti già stati colpiti da interdittiva antimafia proprio mentre svolgeva i lavori al “terminal intermodale” ed erano per preoccupati delle visite sempre più frequenti dei presunti affiliati.
In quella circostanza il giovane Pesce chiede a Giovinazzo «se manda (lo zio, identificato in Salvatore Copelli, ndr) a chiamare Perrone e lo riprendeva un poco…e se questa settimana mandava qualcosa che…senza che prende tempo ancora questo». Copelli portava dunque le “imbasciate” e sempre lui si sarebbe poi «interfacciato coi “grandi” della cosca Pesce per conto dei quali veniva avanzata dai giovani la richiesta estorsiva».  
Nonostante avesse dovuto lasciare i lavori alla ditta Loiacono, Perrone pagherà quella “mazzetta” come si evince da una conversazione del 23 agosto 2018 dove Antonino Pesce, classe 93, racconta la dinamica a Pasquale Loiacono dicendo di essersi «scannato con Perrone» e di averlo «acchiappato»: «Ti faccio il buco del culo così», avrebbe detto Pesce, salvo poi scoprire che le somme erano già state riscosse dal cugino.
Le medesime condizioni e annessi screzi tra i cugini Pesce vengono documentati anche in occasione della riscossione delle estorsioni nei confronti di Loiacono. Nello specifico, in una circostanza si discute di 2mila euro estorti «per la manutenzione dei condizionatori» e i due erano in disaccordo su chi fosse la figura di vertice avente titolo a riscuotere la somma. Secondo Antonino Pesce, classe 93, spettavano al suo omonimo classe 92 chiamato “Antonio materazzo”; secondo Antonino Pesce, classe 91, spettavano a Francesco Pesce detto “Testuni”. La somma in questione, secondo gli inquirenti, doveva essere raccolta da Andrea Loiacono per conto della cosca da coloro che si occupavano della manutenzione dei condizionatori all’interno dei containers. Loiacono risulta infatti essere il legale rappresentante di una ditta di manutenzione e proprio per via di questi rapporti di lavoro, «si era dichiarato disponibile ad anticipare le somme di tasca propria».
Ma sono diverse le ditte assoggettate al sistema. Secondo gli investigatori risultavano coinvolte anche altre aziende destinatarie di pretese estorsive, come quella addetta alle recinsioni metalliche del porto e quella che si occupava dell’illuminazione e della fornitura dell’energia elettrica. E che ci fosse una conoscenza generalizzata dell’infiltrazione delle cosche nella zona del porto – anche tra gli operai – emerge da una conversazione dove un dipendente di Loiacono menziona un certo “Luciano” «che pagava la tassa agli amici di Gioia Tauro».

Proventi per sostentare latitanti e famiglie dei detenuti

Vengono captati diversi incontri tra Antonino Pesce, classe 93 e il coetaneo Pasquale Loiacono dove spesso si discuteva delle somme da versare alla consorteria a fronte di richieste sempre più insistenti quando le necessità si facevano impellenti.
Il più delle volte, i proventi servivano alle cosche per mantenere i latitanti, i detenuti in carcere e le rispettive famiglie. È documentata una visita di Antonino Pesce, classe 93, alla moglie di Vincenzo Pesce detto “u pacciu”. «È da tre giorni che vado avanti e indietro ah! Sono andato pure da questo cornuto…Perrone…ieri sono andato e gli ho detto: “Ciccio (Giovinazzo, ndr) che dobbiamo fare qui?…è urgente!» Pesce, secondo la Dda, vuol dimostrare alla donna di essersi prodigato per recuperare il sostentamento necessario derivante dall’estorsione a Perrone.
Un metodo che non andava tanto bene al cugino Antonino Pesce, classe 91, figlio di Savino Pesce. Secondo lui, infatti, non era tollerabile che le richieste della cosca, rimaste inevase, dovessero essere sollecitate più volte e spingeva il parente a presentarsi personalmente da Perrone. (redazione@corrierecal.it)

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