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“L’ultimo drago” è una fiaba

I libri di Gioacchino Criaco possono essere letti o riletti anche dopo tempo che sono arrivati in libreria, perché sono libri senza tempo, se non quello che appartiene all’esistere, alle leggi del…

Pubblicato il: 27/04/2021 – 19:20
di Mimmo Nunnari
“L’ultimo drago” è una fiaba

I libri di Gioacchino Criaco possono essere letti o riletti anche dopo tempo che sono arrivati in libreria, perché sono libri senza tempo, se non quello che appartiene all’esistere, alle leggi dell’universo, ai dilemmi laceranti del nostro tempo, alle gioie, ai segreti della natura. (Ri)leggere “L’ultimo drago d’Aspromonte” (illustrazioni di Vincenzo Filosa, Rizzoli Lizard, pagine 188, euro 18) fa questo effetto, di immergersi in una storia di crudeltà e di valori che si colloca nello spazio neutro dove il bene si divide dal male e viceversa. Come il vino se buono meglio berlo dopo qualche tempo che sta nella botte, perché invecchiando migliora, così i romanzi di Criaco migliorano se leggi o rileggi dopo tempo. Merito dell’invenzione e costruzione narrativa dei suoi libri che fanno apprezzare il passaggio dall’emozione al sentimento, realizzandosi e rivelandosi a pieno quando la lettura si trasforma in identità dell’uomo e dell’anima. Questo avviene ne “L’ultimo drago”, romanzo in cui si racconta la storia di un uomo che vive in una comunità di recupero, nel cuore dell’Aspromonte e cerca, dentro il suo confine (ma anche evadendo) il sentiero di un’attesa rinascita. Vive in mezzo alla natura, l’uomo-giovane, portato lì dai genitori: immerso in boschi popolati di animali dove il rumore della vita quotidiana degli uomini “normali” giunge a intermittenza. Tra atmosfere sospese, incontri ravvicinati, con creature misteriose, cieli privi di nuvole, forze senza un nome, che lo circondano, vive il suo purgatorio e scopre il passato misterioso e nascosto della sua famiglia. Un incidente che segna i suoi genitori e nasconde un passato non completamente rivelato: terrorismo? Mafia? Tutto, diventa magma incandescente nelle pagine del romanzo, come la materia che prende fuoco nel petto del drago di roccia che regna, da sempre, sull’Aspromonte.

Ma c’è anche la magia della natura e la forza misteriosa del drago che conducono l’uomo lungo il sentiero di un’inattesa rinascita. C’è il pastore ma anche lo stesso protagonista del romanzo che parlano con gli animali e rispettano la natura, la respirano, e se non fosse senza nesso (e forse irriverente) l’idea che viene in mente mentre leggi, penseresti al mondo di San Francesco d’Assisi e al suo modo d’intendere la natura o di parlare con gli animali o al Cosmo dei greci, dove esiste una gerarchia di stati dell’essere e delle forme di vita. Del resto il giovane del romanzo, che deve disintossicarsi dalla sua vita artificiale moderna, e quelli con cui ha contatti, non vivono in un posto, ora maledetto, che un tempo era un paradiso abitato da un popolo che si è estinto? Sono i posti dove le pietre parlano, nel racconto di Gioacchino Criaco, il romanziere che si pone interrogativi esistenziali, che sfida la realtà – pessima – del nostro tempo, mantenendo l’animo dello scrittore di fiabe. Criaco trasforma l’invettiva in preghiera, il particolare in metafora: l’alba, il fuoco, le rovine, il capro imponente, gli alberi ancorati alla roccia, le colpe, le urla, le risate, sono gli spartiti di un unico componimento. La scrittura è anche gioiosa, nonostante tutto, come il carattere dello scrittore, che si concede birbonate letterarie come il “porco” che diventa sindaco ed è saggio perché è porco. Invenzioni (ma non tanto) che mettono a nudo la ricchezza di spirito dello scrittore di Africo e la sua “irregolarità” nel panorama letterario italiano.

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