COSENZA Recuperare le aree interne per offrire una chance in più di crescita all’intera economia calabrese. Nella logica non assistenziale, ma di consentire alle potenzialità endogene dei territori – finora considerati periferici dei grandi centri urbani – di esprimersi al massimo e generare ricchezza diffusa. Anche per il resto della regione. In una visione in cui sia centrale il nuovo paradigma produttivo tipico della green economy lanciato con forza dalle politiche europee degli ultimi anni e rafforzato con il varo del piano Next generation Eu di cui l’Italia con invio a Bruxelles del Recovery plan darà seguito.
Un cambio di prospettiva, dunque, nell’ottica di garantire una rigenerazione – partendo dalla resilienza – del tessuto socio produttivo delle aree più significative della Calabria: sia in termini di identità culturale, ma soprattutto per estensione e detenzione delle risorse primarie della regione (aria, acqua, paesaggio, boschi, agricoltura, agroalimentare e storia). In una parola il cuore pulsante della Calabria.
Una visione nuova che – superi la concezione keynesiana dall’aiuto di Stato fine a se stesso – si trova nella Strategia nazionale per le aree interne (Snai) – elaborata su propulsione dell’ex ministro Fabrizio Barca che per primo nel 2012 lanciò l’idea – e che ha portato alla proposizione di un progetto complessivo di politica nazionale di sviluppo e coesione territoriale di tutte le aree interne d’Italia.
Con un obiettivo principale, appunto, contrastare il processo di marginalizzazione e del conseguente declino demografico di queste zone iniettando i semi della ripresa economica facendo leva sulle vocazioni intrinseche di ogni singolo territorio. Non si tratta soltanto di quelle zone impervie di montagna o quei luoghi sperduti di bucolica memoria, ma di aree molto più vaste. Aree che rappresentano, anzi, la parte più consistente del territorio italiano. Basti considerare che in Italia comprendono quasi 4.200 comuni – cioè oltre la metà del totale – e sono abitate da circa 13 milioni di persone coprendo 6 decimi dell’intera superficie nazionale. Numeri altissimi che danno la misura dell’ampiezza della sfida che diventa ancor più importante nell’economia post pandemia che della resilienza e della ripresa fanno gli argomenti fondanti su cui si basa il futuro dei territori. Ad iniziare dalla Calabria dove i numeri della aree interne sono ancora più consistenti.
Da qui la necessità di vincere quella sfida – rilanciare questa fetta consistente del territorio calabrese – che si tramuta nel riscatto dell’intera regione.
Numeri alla mano, in Calabria ricadono 319 comuni in territorio classificati come area interna: circa 80% del totale (per l’esattezza il 78,7%). Una percentuale di gran lunga superiore a quella italiana che si ferma al 52%. Una categoria che tratteggia cioè quei comuni che ricadono nelle aree intermedie, periferiche ed ultra periferiche. Una distinzione effettuata sulla base della distanza in termini temporali dai centri che garantiscono l’accesso ai servizi essenziali: istruzione, salute e mobilità. In questi territori calabresi vive poco più del 50% della popolazione. In particolare nei comuni periferici ed ultra periferici. Qui l’incidenza è pari al 40% contro la media nazionale del 22,5%.
La caratteristica più drammatica di questi territori è il progressivo fenomeno del calo demografico a cui fa da contraltare naturale l’ indebolimento del tessuto sociale e produttivo locale.
Stando agli indicatori dell’Istat, dal 1981 al 2011 si è assistito ad un vero e proprio esodo da questi territori. Soprattutto nei comuni ricadenti nelle aree ultra-periferiche. In questo lasso di tempo infatti la variazione della popolazione è stata pari al 27,21%. Una flessione consistente che ha interessato anche le zona periferiche: qui la popolazione in 30 anni è diminuita di oltre il 15%. Seppure il fenomeno dello spopolamento interessi l’intera regione, il dato è nettamente superiore alla media regionale del periodo (-5,05%). A dimostrazione della fragilità di queste aree periferiche della Calabria. Una fragilità che è dimostrabile anche da altri indicatori: il tasso d’invecchiamento della popolazione residente, l’alta percentuale di soggetti dipendenti (cioè persone non in età lavorativa) e il basso reddito pro capite. Nei comuni che rientrano nelle aree ultra periferiche, l’indice di vecchiaia (rapporto percentuale tra ultrasessantacinquenni e popolazione con meno di 15 anni) è pari a 211,40, mentre in quelle periferiche questo parametro resta comunque elevato (173,04) rispetto alla media regionale (146,88). Così come resta per entrambe le aree alto l’indice di dipendenza: 57,48 (comuni ultra periferici), 54,33 (comuni periferici).
Numeri che si riflettono anche sulla capacità di generare ricchezza in queste aree. Se il reddito medio dei residenti nei centri polo è pari a 23.156 euro – simile al dato nazionale (23.241 euro) – questo scende a 16.292 euro nei comuni ultra periferici e a 17.717 dei periferici. Dunque si tratta di zone che dimostrano pienamente la propria fragilità conseguente ad anni di sostanziale abbandono di politiche tese a garantire anche i pur minimi livelli di servizi. Anzi hanno subito più di altri la logica perversa della filosofia dei tagli lineari per avvantaggiare i centri maggiori. In una sorta di azione alla Robin Hood al contrario.
Proprio per invertire il declino quasi ineluttabile delle aree interne è stato avviato un progetto – la Strategia nazionale aree interne (Snai) – di cui la Calabria fa parte attiva e anzi ha rilanciato elaborando una propria che comprende oltre le aree interne – inserite nel piano nazionale – anche quelle limitrofe e per questo parimenti svantaggiate. Predisponendo interventi integrati tesi da un verso a garantire servizi essenziali – necessaria ad innalzare la resilienza e dunque la competitività dei territori – e dall’altro in un logica di filiere produttive che punti a valorizzare le vocazioni e le risorse locali.
Per compiere le scelte migliori da riproporre poi a cascata sul resto del contesto sono state individuate quattro aree pilota: Sila e Presila Crotonese e Cosentina; Reventino-Savuto; Versante Ionico-Serre ed infine l’area Grecanica. Qui con risorse comunitarie provenienti dai fondi Fesr, Fse ma anche Psr si punta a creare le basi di una rigenerazione dei territori che forse proprio l’emergenza Coronavirus ha restituito centralità. La fuga dai luoghi ingolfati e sovrappopolati dei grandi centri metropolitani – conseguenza della diffusione dell’epidemia – potrebbe per questo garantire una nuova vita alle aree periferiche. Zone che grazie alla presenza massiccia di risorse naturali come acqua, campi incontaminati, boschi e paesaggio, ma anche alla qualità delle produzioni agroalimentari – che rappresentano il volto reale delle aree interne calabresi – potrebbero offrire chance di una crescita sostenibile e dunque in linea con le indicazioni delle politiche europee.
Domenico Cersosimo (foto in alto) insegna Economia regionale e Valutazione economica delle politiche e dirige la Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche nell’Università della Calabria. È tra i più profondi conoscitori nel campo dello sviluppo economico territoriale e della valutazione di politiche pubbliche per l’attivazione e il rafforzamento delle capacità di istituzioni e comunità locale. In questa veste ha svolto diverse attività di ricerca applicata, attraverso indagini di campo, sui temi delle disuguaglianze territoriali, sociali, economiche e civili. Su questi temi ha pubblicato alcune monografie e diversi contributi su riviste scientifiche e divulgative. Ed ora coordina, assieme alla professoressa Sabina Licursi un gruppo di ricerca che svolgerà – in stretto rapporto con i componenti del Nucleo regionale di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Calabria (Nrvvip) – un’indagine vasta e innovativa proprio sulle aree interne calabresi.
Professore, come ha inciso e sta incidendo la crisi sanitaria da Covid-19 sulla percezione e sulle potenzialità di sviluppo delle aree interne?
«Il Covid-19 sta mettendo in seria crisi una certa idea di modernità basata su eccellenze puntiformi e sul primato delle metropoli. Sembra cioè diffondersi il dubbio sulla capacità egemonica dei grandi aggregati urbani sul resto della società, ovvero sull’unidirezionalità del progresso e dello sviluppo umano ed economico dalla città alla campagna, alla montagna. Molti arrivano ad invocare apertamente un’inversione della direzionalità finora dominante, auspicando l’intensificazione dei flussi dai luoghi della densità umana a quelli della rarefazione, dal grande al piccolo. Qualcuno arriva all’esaltazione, talvolta romantica e naïf, dei borghi come luoghi “ideali” per progetti di vita più densi di relazioni umane e per alimentare economie meno ossessionate dai profitti di breve periodo, più circolari e meno dissipative. Peraltro, fenomeni recenti sembrano andare nella direzione di un cambiamento del paradigma direzionale dominante. Il trend più evidente è quello della diffusione “forzata” del lavoro a distanza, che si prevede continuerà ad interessare aliquote alte di lavoratori anche nel post-pandemia, e che renderà possibile praticare in modo permanente, per la prima volta in forme così diffuse, la separazione fisica tra ufficio, negozio, fabbrica, riunioni e luogo della prestazione. È molto probabile dunque che una parte significativa di lavoratori ritornati nei comuni di origine a causa del Covid-19, di cui ovviamente molti nelle aree interne del Mezzogiorno e anche della Calabria, finiranno per trattenersi definitivamente nei luoghi di nascita, con ripercussioni significative non solo sui flussi di mobilità ma anche sulle economie e le comunità locali, di partenza e di arrivo. Seppure in scala minore, potrebbero attivarsi, stavolta in direzione contraria, meccanismi moltiplicativi sociali ed economici simili a quelli vissuti nell’emigrazione di massa dal Sud al Nord d’Italia. Nella stessa direzione vanno intenzionali programmi e politiche pubbliche, nazionali e regionali, rivolti a favorire il trasferimento permanente verso paesi e località rurali di famiglie, soprattutto composte da giovani con figli piccoli, che non riescono a sostenere più i costi crescenti, economici e non, della vita in città, oppure per il bisogno di connessione con la natura e con pratiche di vita più sobrie, alla ricerca di un quotidiano più “lento” e più profondo. Senza trascurare che la crisi ambientale alimenterà sempre più una domanda di “altura”, di località fresche dove è prevedibile che si dovrà abitare nei prossimi anni per diversi mesi all’anno. Anche fenomeni legati più strettamente alla sfera del mercato contribuiscono ad abilitare la residenza e l’attività economica nelle aree interne. Sarebbe tuttavia velleitario considerare questi segnali, peraltro assai deboli, di inversione delle tendenze consolidate, come indizi di crisi strutturale del modello urbano-centrico, tanto sul piano culturale e della rappresentazione quanto su quello delle politiche. Non credo insomma che siamo di fronte al declino dell’urbano, piuttosto ciò che sembra in crisi sono certe supposte linearità dei processi di trasformazione (dalla città al resto, dal centro al margine), che spingono a nuovi sguardi, a prendere in considerazione il “tutto” e l’unitarietà delle parti, anche delle aree interne».
Ma la Calabria per le sue caratteristiche orografiche forse più di altre regioni soffre il fenomeno dell’isolamento di intere aree. Qual è l’attuale situazione?
«L’orografia regionale è una causa aggravante del malessere delle aree interne calabresi. L’infragilimento e spesso il declino demografico, socio-economico e civile di queste aree è da ricercare però soprattutto nel loro disconoscimento politico e da politiche pubbliche penalizzanti. Negli ultimi decenni, ha dominato una rappresentazione dicotomica del nostro Paese: ad un polo le città, in particolare quelle più grandi, considerate come i locomotori unici dello sviluppo e del progresso e, al polo opposto, il resto, i vagoni che hanno bisogno di essere trainati. Una narrativa senza dubbio efficace per influenzare l’agenda delle politiche e per trasferire più risorse a chi già ne ha di più, ma che trascura che l’Italia è il paese del molteplice, del policentrismo territoriale, antropologico, culturale. L’eterogeneità – fisica, produttiva, simbolica – è da sempre il nostro “vantaggio competitivo”: il fascino unico di tante Italie in ogni luogo. La rappresentazione stereotipata disconosce questo carattere meticcio della nostra penisola, trascura la forza attrattiva del mosaico, non considera che la sicurezza della pianura dipende dalla presenza umana nelle colline e nelle montagne, la salubrità delle città dalla qualità dei boschi sovrastanti. Mondi diversi ma interconnessi, anche per questo squilibri profondi di una parte abbassano la sostenibilità sociale e economica dell’intero sistema. Lo spopolamento e l’abbandono pertanto non fanno male soltanto alle aree interne bensì al Paese nel suo insieme. Il troppo vuoto di un’area si traduce spesso nel troppo pieno di un’altra, la rarefazione si associa alla congestione, le perdite di alcuni non sempre si traducono in guadagni per altri. Gli enormi costi economici, sociali e ambientali di questo abbandono, in Calabria e nel resto dell’Appennino meridionale, sono davanti ai nostri occhi. Città inquinate, alluvioni e frane rovinose, degrado ambientale, impoverimento antropico e produttivo di ampi territori, disuguaglianze crescenti di cittadinanza e di opportunità tra luoghi “centrali” e luoghi marginalizzati, diffusione della povertà educativa. Per questo è urgente, come sosteniamo in Riabitare l’Italia, “invertire lo sguardo”, cambiare la quota della rappresentazione, osservare il Paese dalla montagna, dai paesi polvere, dalle periferie, dai Comuni senza risorse e senza servizi di cittadinanza. Non c’è futuro per le aree interne senza un cambiamento degli sguardi e della postura narrativa, se non si considerano contemporaneamente abbandoni e ritorni, emigranti e immigrati, de e ri-contadinizzazione, vecchie e nuove produzioni».
Quali potrebbero essere i vantaggi del rilancio delle aree interne per l’economia complessiva della Calabria?
«Tanti. Il più importante è certamente quello di restituire ai calabresi che vivono nelle aree interne la libertà sostanziale di decidere se restare o partire. Oggi per molti di loro esiste solo l’uscita, l’abbandono doloroso e silenzioso. Le indagini ci dicono che tanti abitanti delle aree interne, anche giovani, desidererebbero restare, a condizione però di poter usufruire di servizi di cittadinanza in quantità e qualità adeguate per condurre una vita decorosa. La rivitalizzazione delle aree interne avrebbe impatti significativi per l’economia regionale. Per più ragioni, negli ultimi tempi si sono aperte nuove finestre di opportunità per produzioni e specialità agricole di nicchia, per beni ad alto valore aggiunto di creatività, salubrità, tipicità. Se il vino prodotto in una certa collina, oltre ad essere buono e biologico, deriva da vigneti impiantati su terrazzi sostenuti da muretti a secco che evitano il rischio di frane e smottamenti verso valle dei terreni, può godere di un surplus di valorizzazione simbolica che, se opportunamente valorizzata, consente di aspirare a remunerazioni più alte. L’agricoltura delle aree interne è potenzialmente in grado di cogliere queste nuove opportunità in quanto è intrinsecamente un’attività di specialità, di piccola scala, multifunzionale e vocata ai canali distributivi “corti”, a ridosso del consumatore. Come sostiene in modo infaticabile Piero Bevilacqua, nelle aree interne è possibile produrre prodotti di qualità intrinseche superiori a quelli offerti dall’industria; superiori per sapore, freschezza, salubrità, ma anche per prossimità geografica, per specie centenarie che meglio rispondono ai fabbisogni moderni di cibo e di ecosistemi agricoli sostenibili per la salute umana e per l’ambiente. Tutt’altro dunque che un ritorno a pratiche del passato, all’agricoltura dei bisnonni, all’arcaicità del “bel mondo” andato. Senza trascurare le diverse e sfaccettate occasioni di valorizzazione delle aree interne nei segmenti del turismo “lento”, esperienziale, dei viaggiatori allocentrici, curiosi dei luoghi e interessati a contestualizzarsi, degli abitanti metropolitani alla ricerca di “silenzio”, di riconnettersi con la natura e con cicli di vita “dolci”. Oppure all’insieme dei servizi eco-sistemici (legname da opera, energie rinnovabili, manutenzione, acqua, ossigeno, paesaggi) che le aree interne riabitate potrebbero offrire alle città e alla riproduzione sociale dei ceti urbani. Il rilancio delle aree interne dunque oltre agli enormi vantaggi sotto il profilo umano, ambientale e sociale avrebbe un influsso apprezzabile anche sull’economia regionale».
Su questo fronte è partita una strategia nazionale finalizzata alle aree interne. E in Calabria esistono 4 aree pilota a che punto è questa programmazione?
«La Strategia nazionale per le aree interne (Snai) nasce nei primi anni del decennio scorso per ideazione dell’allora ministro Fabrizio Barca. Una politica pubblica innovativa che mette al centro le persone, i bisogni prima degli interventi. Una politica “basata sui luoghi”, perché connette, territorio per territorio, in un solo tempo dignità della vita quotidiana e sviluppo economico, scuola e imprese, salute e imprenditorialità, rifiutando il determinismo economicista che considera la qualità della cittadinanza come una variabile dipendente dal livello di sviluppo. La Snai è soprattutto una politica per incoraggiare e sostenere la residenzialità, renderla possibile e civilmente sostenibile, ma anche per attivare e mobilitare i potenziali produttivi, nuove economie locali, curare e riattivare beni pubblici attraverso il lavoro “vivo” dei residenti. Si tratta dunque di una politica deliberatamente sperimentale e “paziente”, basata sull’ascolto e sulla raccolta della conoscenza locale, luogo per luogo, e sul suo intreccio con la conoscenza centrale, dei ministeri, dei centri di ricerca scientifica più avvertiti. Dopo alcuni anni di apprendimento “sul campo”, la Snai ha deciso di avviare, d’intesa con le Regioni, le operazioni operative in 72 aree pilota, di cui 4 in Calabria (Sila e PreSila Cosentina e Crotonese; Savuto-Reventino; Serre-Jonico; Grecanica), che coinvolgono circa 60 Comuni e quasi 80 mila abitanti. Queste aree pilota hanno a loro volta costruito una propria Strategia d’area, coinvolgendo Sindaci, forze sociali e imprenditoriali locali, che prevede azioni e interventi indirizzati a rafforzare la dotazione di servizi pubblici essenziali (scuola, sanità, trasporti) e ad incentivare lo sviluppo locale. Attualmente una sola area ha già siglato l’Accordo di programma, e dunque in procinto di partire con le operazioni e gli investimenti effettivi, mentre le altre tre stanno lavorando alla definizione dei rispettivi Accordi. Le procedure di costruzione delle Strategie d’area sono state lunghe, troppo lunghe, per la somma di difficoltà locali, regionali e nazionali. Non bisogna tuttavia mai dimenticare che queste sono politiche difficili, strutturalmente “consumatrici di tempo”: perché presuppongono il coinvolgimento di molti attori locali e centrali, l’allineamento delle loro preferenze, il confronto sistematico con la società locale, l’integrazione di fonti finanziarie di diversa origine; perché hanno l’ambizione di “ricostruire” comunità locali sfilacciate, strappate, devitalizzate, marginalizzate, un’operazione tutt’altro che semplice e certa. Del resto, non esiste la “farmacia dello sviluppo”: il progresso e la modernizzazione attiva sono irrimediabilmente costrutti collettivi localizzati, faticosi, tortuosi, che presuppongono dunque pazienza, cooperazione, confronto e, spesso, conflitto. La Snai ha questa ambizione, a prescindere dal successo di singoli casi pilota di applicazione».
Come Università avete promosso recentemente un accordo per approfondire meglio questo fenomeno. Qual è la molla che vi ha spinto a sostenere questa ricerca?
«Agli inizi di quest’anno, la Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical e il Nucleo regionale di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Calabria, diretto dall’ingegner Giovanni Soda, hanno siglato un Accordo di collaborazione, della durata di un anno, finalizzato alla realizzazione di un insieme di indagini conoscitive sulle condizioni di vita e sulla dotazione e sulla qualità dell’infrastrutturazione civile e istituzionale nelle quattro aree pilota prima ricordate. L’obiettivo delle ricerche, coordinate da me e dalla professoressa Sabina Licursi, e che vedono coinvolti, oltre ai componenti del Nucleo, ricercatrici e ricercatori del Dipartimento fortemente motivati e di diversa estrazione disciplinare (oltre venti tra sociologi, politologi, giuristi, metodologi, antropologi, aziendalisti, economisti), è quello di analizzare in profondità le ragioni del restare o del partire, sulle criticità e sulle convenienze della vita nelle aree interne, sul profilo delle classi dirigenti locali. Stiamo per partire con una serie di inchieste sulle e con le élite “iconiche” di quelle aree (sindaci, segretari comunali, medici di base, dirigenti scolastici), sulle famiglie con figli minori, i giovani, gli innovatori sociali, le associazioni civiche, religiose, politiche, sulla disponibilità e l’efficacia dell’offerta di servizi essenziali nel campo dei trasporti, della formazione scolastica, della connettività e dei presidi socio-sanitari. L’ambizione è produrre “conoscenza utilizzabile” nei processi di costruzione e di attuazione della politica pubblica regionale a sostegno delle aree interne regionali, e più in generale contribuire ad individuare, ridefinire e collocare i problemi sociali di quelle aree entro un quadro di senso, concorrendo ad arricchire la discussione pubblica basata su nuovi dati e nuove informazioni qualitative. Proviamo inoltre ad accendere un faro conoscitivo su un pezzo dell’Italia estrema, su comunità da troppo tempo trascurate e per questo spesso a rischio di estinzione».
Le risorse del Recovery oltre a quelle delle programmazioni comunitarie potrebbero imprimere una svolta alla ripresa dell’economia di questi territori?
«L’implementazione del Piano di ripresa e resilienza dovrà avere impatti tangibili, profondi, soprattutto nelle aree più fragili e marginalizzate del Paese, e dunque anche in quelle calabresi, perché è in questi luoghi che si addensano le disuguaglianze civili, sociali ed economiche più acute. Allo stato il Pnrr non è altro che un piano, un mero punto di partenza, una corposa posta finanziaria; per trasformarsi in impatti e cambiamenti effettivi per le aree interne calabresi c’è bisogno di tanto altro: di progetti e interventi integrati strettamente finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita dei residenti, di un deciso rafforzamento delle strutture tecniche dei Comuni, di un coinvolgimento attivo delle società locali nel processo di individuazione dei risultati attesi e delle azioni per perseguirle. Siamo difronte ad una biforcazione evolutiva. Il Piano può essere una formidabile occasione per cambiare, per intraprendere nuove vie, per destabilizzare rendite di posizione ossificate, per combattere le convenienze allo status quo, per superare il primitivismo organizzativo e delle logiche di funzionamento dello Stato, centrale e regionale, per rafforzare gli innovatori. Oppure può rappresentare, come l’esperienza di molti piani del passato insegna, una nuova e più ghiotta opportunità per le classi dirigenti “estrattive” (politici, burocrati, professionisti, strati sociali e criminali), quelle che estraggono convenienze, personali e di gruppo, dall’arretratezza civile e dal sottosviluppo economico. I calabresi, anche quelli che vivono nelle aree interne, hanno il potere di scegliere, di muoversi e lottare per cambiare, oppure per continuare ad assistere impotenti al declino demografico e all’abbandono». (r.desanto@corrirecal.it)
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