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collaborazione e processo

Rinascita Scott, Mantella: «La mia vita prima e dopo la collaborazione»

Da componete di «una squadra di morte» a «persona nuova». Da detenuto che corrompeva con il denaro a uomo lontano dalla Calabria. L’estorsione all’obitorio, l’integrità criminale dei Bonavota, lo s…

Pubblicato il: 11/05/2021 – 7:15
di Alessia Truzzolillo
Rinascita Scott, Mantella: «La mia vita prima e dopo la collaborazione»

LAMEZIA TERME «Io non ho più rapporti con nessuno, non ho famiglia, sono da solo, a me mi hanno ripudiato tutti, io sono orgoglioso di questo. Sono una persona nuova, diversa, non ho più niente. Non ho più informazioni della Calabria, assolutamente. Io sto facendo la mia detenzione, le mie testimonianze, lavoro, ho la mia attività. Ho una vita nuova e va bene così». Andrea Mantella, 49 anni, collaboratore di giustizia dal maggio 2016, lo dice chiaramente, più volte, nel corso del processo “Rinascita-Scott”: è stato il capo del gruppo criminale da lui fondato a Vibo Valentia fino a un secondo prima che i magistrati della Dda di Catanzaro accendessero i registratori. Della sua vita prima di quel “click” racconta tutto quello che sa, non nasconde nulla e nulla teme di ciò che racconta. Ma della vita criminale che si è sviluppata a Vibo Valentia dopo l’avvio della collaborazione non sa e non ha voluto sapere più niente. Ciò di cui è a conoscenza, però, riguardo al suo passato criminale lo racconta senza nascondere nomi, propositi, alleanze, pregi, difetti, tradimenti. Racconta i comportamenti poco etici di taluni avvocati e magistrati così come i codici d’onore delle consortierie.

Pizzini in carcere e la spinta a corrompere

Mentre lui era nel carcere di Cosenza, ha raccontato ieri Mantella collegato con l’aula bunker di Lamezia Terme, rispondendo alle domande del pm Andrea Mancuso, ha ricevuto una lettera «da un avvocato (Mantella non ne fa il nome, ndr) nella quale c’era scritto che dovevano chiudere un’estorsione nell’obitorio dell’ospedale di Vibo Valentia. L’avvocato mi dice: “Allora cosa devo dire ai suoi cugini (Vincenzo e Salvatore Mantella, ndr) che la parcella per il mio collega di 10mila euro va bene?”». Il linguaggio, spiega il collaboratore, è criptico: la parcella in realtà si riferisce all’estorsione. «Io avevo letto quel pizzino e ho risposto che la parcella di 10mila euro per il collega andava bene». Dunque mentre Mantella era in carcere i suoi omini erano attivi nel settore delle estorsioni. «I proventi delle estorsioni – prosegue Mantella – andavano a mio zio Armando Mantella che provvedeva alle mie cure in carcere e pagavano quello che c’era da pagare, mi sostenevano a livello legale, a livello personale. Non c’era una bacinella tra di noi perché quando entravano i soldi, i soldi andavano divisi». Andrea Mantella era un soggetto ad alto mantenimento, lo dice egli stesso: «Io ero molto esigente. Cercavo sempre di spingere con il denaro, di corrompere di corrompere di corrompere, di falsare le perizie mediche. Dovevano pagare periti a Napoli, a Roma, avvocati. Pure a Torino avevo avvocati. Ero molto esigente. Avevo delle spese incredibili».

Scambi di favori con gli Arena

A ottobre 2004 viene ucciso a colpi di bazooka Carmine Arena, boss di Isola Capo Rizzuto, mentre viaggiava nella sua auto blindata. Al funerale parteciparono Salvatore Mantella e Francesco Fortuna che Mantella definisce «il messaggero della cosca dei Bonavota». I Bonavota si mettono a disposizione degli Arena. Tra i due gruppi, sostiene il collaboratore, «c’era un rapporto di grandissima stima», tanto che quando i Bonavota avevano deciso di fare fuori Domenico Di Leo, organico alla cosca di Sant’Onofrio con la quale erano, però sorti degli attriti, erano arrivati da Crotone due uomini degli Arena: Pino Arena e Franco Gentile. Per diverse sere avevano aspettato, accompagnati dallo stesso Mantella, l’arrivo di Di Leo nella piazza di Sant’Onofrio. Doveva essere un omicidio eclatante: Franco Gentile doveva sparare a Di Leo in piazza, a volto scoperto. Ma l’occasione non si presentò e alla fine i crotonesi tornarono a casa e ad ammazzare Domenico Di Leo «abbiamo provveduto noi», racconta Mantella. «In un’altra corcostanza – prosegue Mantella – volevamo ammazzare Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni” e c’erano due persone del Crotonese che erano a disposizione per intervenire per sparare contro “Scarpuni”».
Anche per questa ragione, dopo la morte di Carmine Arena, i Bonavota si erano messi a disposizione. Ma, secondo Mantella, la cosca di Sant’Onofrio poi si sarebbe ravveduta per evitare di inimicarsi i Nicoscia o i Grande Aracri nella guerra di mafia che imperversava nel Crotonese.

L’integrità criminale dei Bonavota

La decisione dei Bonavota di mantenersi neutrali rispetto alla faida che aveva portato alla morte di Carmine Arena, secondo Mantella è segno del fatto che i Bonavota non facevano il doppio gioco. «È la famiglia più onesta all’interno della ‘ndrangheta – dice Mantella –, non ha mai fatto casi di lupara bianca, non è mai stata scorretta. Se si può usare un termine all’interno della criminalità organizzata: onestà, i criminali onesti sono solo ed esclusivamente i Bonavota. Non hanno mai fatto infamità, non hanno mai giocato col doppio mazzo di carte a differenza di altri che hanno giocato sia con gli sbirri che con la ‘ndrangheta. I Bonavota sono onesti e puri. La parte più dolorosa della mia collaborazione è che purtroppo per loro io mi sono pentito e la collaborazione è una conseguenza, non ci sono altre alternative quando collabori con la giustizia. In un certo senso sono stato costretto, moralmente intendo dire, ad accusarli, perché non c’era un’altra alternativa altrimenti io fino a un minuto prima li amavo. Devono sapere i Bonavota che anche la Dda c’era arrivata… comunque, va bene così…». «A casa loro i Bonavota non hanno mai tradito nessuno – dice Mantella – tanto è vero che quando io andai a chiarire con uno dei Iannazzo, con tale Tonino Davoli, io mi fidai di Domenico Bonavota di Francesco Fortuna e di Nicola Bonavota perché riconoscevo la loro integrità. Andammo a Serra San Bruno davanti a Damiano Vallelunga. Era un questione molto seria, c’era la vita in gioco. Loro hanno garantito che saremmo tornati tutti a casa. In effetti abbiamo chiarito e siamo tornati tutti a casa. Lo so che oggi si staranno mangiando le mani che io sia tornato a casa…». 

La squadra di morte e la Fossa del lupo

La squadra di morte dei Bonavota era composta da Francesco Scrugli, Domenico Bonavota, Nicola Bonavota, Francesco Fortuna, Andrea Mantella e Onofrio Barbieri. «Nel periodo in cui io ero latitante, nel 2005, le armi le teneva, sotterrate, un ragazzo che era il nipote del prete del paese. Comunque armi ce ne stavano da tutte le parti, nelle sterpaglie, da tutte le parti». «Rubino – racconta Mantella – era un imprenditore boschivo dove si andava a provare il funzionamento delle armi: pistole, fucili e kalashnikov. Era una sorta di esercitazione lì, nella zona della cosiddetta Fossa del lupo. Rubino – prosegue Mantella – è il suocero di Francesco Mallamace questo Rubino». 

«Il macellaio che mancò di rispetto a mio padre»

A Giuseppe Mantino, macellaio proprietario del negozio “Cavallino”, Andrea Mantella lo vide arrivare in ospedale con l’ambulanza scortata dai carabinieri. Mantella si trovava nel nosocomio per farsi un alibi. In realtà aveva dato lui l’ordine a suo cugino Salvatore Mantella di sparare contro il macellaio che «per ragioni di pascolo mancò di rispetto a mio padre. Salvatore Mantella lo ha sparato con una 44 magnum».

La parruccheria di Lello “salva” grazie a Pietro Giamborino

Il gruppo di Andrea Mantella aveva compiuto un’intimidazione alla parruccheria “Capolinea” di Lello mettendo del liquido infiammabile. «La cosa si è risolta per intervento di Saverio Razionale attraverso Nazzareno Felici perché questo Lello interessava, per ragioni di parentela a Pietro Giamborino (ex consigliere regionale imputato in Rinascita, ndr). Perciò l’intimidazione non andò oltre più di tanto oltre e non se ne fece niente».

Scambio di omicidi con i Giampà

Come aveva già raccontato in precedenza, Mantella ribadisce che l’omicidio Franzoni è avvenuto per volontà di Franco Barba e venne materialmente compiuto da sicari della cosca lametina dei Giampà mandati da Pasquale Giampà “Mille lire” su richiesta di Mantella che con la cosca egemone di Lamezia Terme aveva legami di parentela. Un favore da parte dei Giampà che viene ricambiato perché poi Salvatore Mantella e Francesco Scrugli spararono su due Torcasio i quali riuscirono a salvarsi. «Su Lamezia eravamo presenti – racconta Mantella – io, Salvatore Mantella e Francesco Scrugli in un appartamento perché dovevamo abbattere Gennaro Pulice e Bruno Gagliardi. Gagliardi scappò perché quando noi siamo andati sull’obbiettivo quella mattina pioveva. L’omicidio doveva avvenire davanti al negozio di scarpe di Giglio solo che quando siamo andati con la macchina, dovevamo scendere io e Scrugli, una signora che ci vide arrivare incappucciati si spaventò e ha spento la macchina. Noi siamo rimasti impigliati e il Gagliardi se ne accorse, prese la sua Audi A3 grigia e scappò». Anche questo faceva parte dell’accordo per ricambiare il favore dell’omicidio Franzoni. «Scrugli e Salvatore Mantella stavano h24 su Lamezia per rendere la cortesia che abbiamo ricevuto – afferma Mantella –. Gagliardi e Pulice erano due che sparavano per conto dei Iannazzo, erano due persone pericolosissime che i Giampà temevano in modo particolare. Gli omicidi non andarono in porto perché i due hanno avuto problemi con l’autorità giudiziaria e si sono allontanati dal territorio di Lamezia e i Giampà non riuscivano a intercettarli». Pulice rimase in vita grazie ad accordi presi con Damiano Vallelunga. «I Bonavota hanno garantito per me che io non dovevo più sparare su Lamezia e loro non avrebbero più pensato di sparare su di me. A quel punto mi feci due calcoli e me ne tirai fuori ascoltando i consigli dei Bonavota e di Vallelunga». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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