«La solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un essere o non essere, una questione di vita o di morte».
Così il filosofo Immanuel Kant. L’attualità della sua affermazione è incisa sulle tavole del presente: la pandemia, con i suoi tragici effetti, è stata (e continua a essere) durissima. Ha scavato ulteriormente solchi già profondi, accrescendo le disparità e colpito, in particolare, le donne, i giovani, i deboli e i più poveri. Ha imposto stravolgimenti radicali, facendo della casa una sorta di fortezza e delle mura domestiche lo spazio di ufficio e studio, asilo e scuola, palestra e chiesa, frantumando il sistema di conciliazione tra famiglia e lavoro. Quel che è peggio, se possibile, è che essa avrà effetti durevoli, per molti anni ancora, anche sotto l’aspetto psicologico. E con la sua coda potrebbe alimentare, ancor più, paure e rancori. Venirne fuori non è solo questione di efficienza ed efficacia di una campagna vaccinale comunque indispensabile e fondamentale. L’opportunità da cogliere è anche un’altra: ripartire coniugando sviluppo e riduzione dei divari.
La crisi scatenata dall’inarrestabile diffondersi del virus ha posto l’Italia (ed il resto del pianeta) di fronte alla realtà amara di un’epoca priva di discussione e confronto serio, lungimirante sul futuro, di una competizione politica basata sull’oggi e quasi mai sul domani, di un dibattito pubblico ridotto a slogan e comparsate, di un’informazione trasformata in caccia al click. E soprattutto, di un modello economico che ha lasciato dietro di sé precarietà e disuguaglianze. Le certezze già profondamente scosse dal terremoto finanziario del 2007 sono state definitivamente spazzate via dalla pandemia. Il rischio concreto, però, è che finita l’emergenza si ritorni allo status quo ante.
Restare inermi di fronte a tale eventualità sarebbe deleterio, visto che mai come in questo momento le condizioni sono favorevoli per correggere storture, colmare vuoti, in molti casi cambiare passo e prospettive, ad esempio al Sud, per provare a superare – una volta per tutte – lo storico e significativo distacco del Mezzogiorno rispetto alle regioni del Centronord ed all’Europa andando oltre la narrazione che si è imposta nel corso degli anni Novanta – secondo cui il Meridione è arretrato solo per colpe proprie e delle sue classi dirigenti incapaci di valorizzare le tante risorse sottomano – e che alla fine ha portato a privilegiare, investimenti sempre più corposi a vantaggio delle aree già ricche, in base alla teoria dello sgocciolamento: dare di più a chi ha già tanto avvantaggerà anche chi ha meno, perché il benessere gocciolerà via via dai più abbienti ai meno abbienti.
Nulla di più falso, nulla di più errato, come i fatti adesso tragicamente confermano. La svolta, allora: è necessaria, ma va costruita. Ragionando ora di nuovi modelli economici, certo, ma anche di un rinnovato impianto di relazioni interpersonali e sociali. Occorre far bene, e da subito. «Il tempo per la ricerca di soluzioni globali», osservava poche settimane fa papa Francesco, «sta scadendo, e l’attuale emergenza sanitaria ci obbliga a pensare agli esseri umani, a tutti, piuttosto che ai profitti di pochi».
*Arcivescovo di Catanzaro Squillace
Presidente della Cec
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