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«Nessuno provi a giudicare il Sud! Il libro dello chef Filippo Cogliandro»

C’è un piccolo libro sulla Calabria che circola da pochi giorni nelle librerie italiane. Non è la solita menata di saggisti supponenti che veicolano sempre la stessa immagine di questa regione. È,…

Pubblicato il: 22/05/2021 – 13:00
di Francesco Bevilacqua*
«Nessuno provi a giudicare il Sud! Il libro dello chef Filippo Cogliandro»

C’è un piccolo libro sulla Calabria che circola da pochi giorni nelle librerie italiane. Non è la solita menata di saggisti supponenti che veicolano sempre la stessa immagine di questa regione. È, invece, una storia vera: bella, edificante, esemplare. Si intitola “Io, chef per la mia terra”. L’ha scritta il protagonista, Filippo Cogliandro, con l’aiuto di un bravo giornalista, Oreste Paliotti, per i tipi di Città Nuova. Parla di ‘ndrangheta (avete capito bene!) ma anche di resilienza, creatività, altruismo, coraggio. E vale davvero la pena di esser letta. Per provare a comprendere, senza pregiudizi, cosa è, davvero, la Calabria, e come anche le vicende più drammatiche possano essere volte al bene. In un tempo e in un luogo caratterizzati invece, per lo più, da storie tragiche, deprimenti, paralizzanti. Nessuno mai trarrà un film da questa storia. Perché al pubblico – pare – piacciono solo le violenze, i morti ammazzati, il sangue, le sparatorie. Come mi capitò di appurare personalmente, nel 1988, con la giornalista di una grande rivista italiana affidatami perché la guidassi in Aspromonte, per un servizio su quello che sarebbe divenuto, di lì a poco, uno dei nuovi grandi parchi nazionali italiani.
Alla giornalista non interessava un bel nulla delle foreste, dei grandi alberi, delle gole fluviali, delle cascate, delle rupi, dei borghi, degli ultimi pastori: cercava solo le lapidi dei morti ammazzati ed i cartelli stradali sforacchiati dai colpi di lupara!

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È da questo genere di stereotipi che nasce l’idea del Sud – e della Calabria in particolare – come di “un paradiso abitato dai diavoli”. Benedetto Croce ci scrisse sopra il testo di una conferenza (oggi pubblicata in un libro dell’Adelphi), nel 1923. Il detto si riferiva inizialmente a Napoli, ma venne esteso, col passare del tempo, a tutto il Sud Italia. La metafora finì quindi per essere [ab]usata anche dai tanti viaggiatori stranieri che fra il Settecento ed i primi del Novecento, visitarono la Calabria.
Ma, a proposito dell’ingeneroso detto, così Croce concludeva la sua conferenza: “E se ancor oggi noi accettiamo senza protestare o per nostro conto rinnoviamo in diversa forma l’antico biasimo, e se anzi, non lasciamo che ce lo diano gli stranieri o gli altri italiani ma ce lo diamo volentieri noi a noi stessi, è perché stimiamo che esso valga da sferza e da pungolo, e concorra a mantener viva in noi la coscienza di quello che è il dover nostro. E sotto questo aspetto, c’importa poco ricercare fino a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre men vero”.
Ciò a voler dire: non deve importarci se il proverbio è vero o meno; teniamolo ben presente e facciamo in modo che esso venga smentito sempre più dal buono che sapremo fare noi meridionali!
È esattamente quel che ha fatto Filippo Cogliandro divenendo uno chef ed un imprenditore di successo a Reggio Calabria. Da abitante dell’estrema propaggine della più meridionale fra le regioni dell’Italia peninsulare, Filippo ha dedicato la sua vita a dimostrare – con i fatti, non con le parole – che il Sud non è un paradiso abitato dai diavoli, che al Sud si può vivere con dignità e perfino essere felici. L’esperienza di Filippo, che non si piega ai ricatti della ‘ndrangheta e crea lavoro per sé e per gli altri, in contro-tendenza rispetto alla “normalità”, trae linfa dall’esempio del padre Demetrio, così determinato a non arrendersi, dall’essere, proprio per questa ragione, brutalmente gambizzato. La famiglia di Filippo è esattamente il contrario di quella del “familismo amorale” ideato dal sociologo statunitense Edward C. Banfield nella sua famosa (e fumosa) ricerca su “Le basi morali di una società arretrata”, condotta, nel 1954, in un piccolo paese della Basilicata, da cui Banfield trasse l’ennesimo stereotipo sull’intero Sud, quello di una concezione chiusa, gretta, egoistica degli interessi della sola famiglia nucleare. Nella famiglia di Filippo, invece, vige una solidarietà aperta verso l’esterno, verso i meno fortunati, verso chi soffre. Ecco perché, nel momento del bisogno – quando Filippo viene taglieggiato – la sua famiglia gli si stringe attorno rassicurandolo, appoggiando la sua difficile scelta di resistere alla ‘ndrangheta. Filippo ed i suoi familiari hanno desiderio di realizzare le loro vite, sono laboriosi, onesti, creativi: altra confutazione dei luoghi comuni su un Sud fatto di immobilismo ed ignavia.
Filippo, nell’immaginare il suo futuro, sa coniugare tradizione e innovazione, identità e ideazione, saperi e creatività. Anche qui scardinando il luogo comune di un Sud inguaribilmente passatista. Filippo può contare, inoltre, sulla vicinanza di altre persone di buona volontà, da don Luigi Ciotti e “Libera” agli altri imprenditori taglieggiati, ai magistrati, agli amici, ai migranti da lui accolti ed aiutati a trovare lavoro nei suoi ristoranti.
Ma ciò che mi ha maggiormente meravigliato è l’ultima parte del racconto. Mentre leggevo, come un incalzante romanzo, la storia di Filippo, pensavo a come la pandemia in corso avesse potuto tarpare le ali ad una intrapresa economica (ma anche sociale) come quella del protagonista, tutta basata sulla convivialità e le relazioni. E mentre mi prefiguravo chissà quali sconquassi, Filippo, ancora una volta, dimostrava come si può fare di necessità virtù, accogliendo la difficoltà come un’occasione per ritrovare l’intimità della sua famiglia, primi fra tutti i figli. Il buon Dio sa quanto i nostri figli abbiano bisogno di genitori che sappiano ascoltare, condividere, aiutare, con discrezione e pazienza, soprattutto in quest’epoca di condizionamenti e distrazioni di massa amplificati dalla pervasività dei nuovi media. Il cucinare per e con i bambini, insegnare loro – ancora una volta attraverso l’esempio – quanto sia buono, vero e bello “osare” l’inusuale accoppiamento delle uova di galline “felici” con il caciocavallo dell’Aspromonte e con le foglie delle cipolle dell’orto, sotto l’egida dell’operazione “svuotafrigo”, come la chiama Filippo mi è parso un gesto di speranza, di fiducia verso luoghi e genti che qualcuno ancora si ostina a definire irredimibili. Lazzàro – il luogo dove Filippo ha scelto di vivere e restare – è una frazione marina del comune di Motta San Giovanni, fra Capo dell’Armi e Punta Pellaro, una manciata di chilometri più in giù di Reggio Calabria, dove la costa calabra s’incurva verso est con un lungo semicerchio che la condurrà, poi, a risalire nuovamente verso nord. Da un lato il mare e la Sicilia, con l’immaginifica visione dell’Etna fumigante. Dall’altro le brulle colline spazzate dal vento che digradano dall’Aspromonte, costellate di rovine e di rupi dalle forme pittoresche. Chi non ha mai visto questo piccolo, grande angolo d’Europa, di Mediterraneo, di Sud non sa nulla del mondo. Chi non conosce la storia che qui si è dipanata, chi non sa di Filippo e delle sue galline “felici” non provi a giudicare il Sud.

*Avvocato e scrittore

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