Siamo immersi in una grande, disordinata e insicura transizione epocale. Si annuncia una discontinuità di sistema, strutturale, l’arrivo di un “nuovo mondo”, di una nuova normalità, di un ridisegno dei piani di vita individuale e familiari. Il Covid-19 è la cesoia del prima dal dopo, una porta tra due mondi che dobbiamo attraversare. Il dopo non è scontato, il sentiero evolutivo non è predefinito. Sono tante le biforcazioni possibili, diverse le alternative. Nell’attraversamento c’è spazio per l’immaginazione e per l’azione.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è un’occasione forse irripetibile per prendere il sentiero giusto e invertire la rotta. Per l’Italia e, soprattutto, per la Calabria che ha un disperato bisogno di uscire dal declino incipiente. Forse più che per i suoi potenziali impatti economici, per la nostra regione il Piano risulta strategico perché ci costringe a pensare ai fattori abilitanti, e mobilitanti, adeguati a rompere l’equilibrio da sottosviluppo. Questo è il punto focale. Senza vincoli e condizionalità stringenti, gli impatti del Piano sull’economia e la società calabrese rischiano, come i precedenti, di essere depotenziati e assorbiti dai ruminanti circuiti sociali e istituzionali locali. Piuttosto che destabilizzare le convenienze allo status quo da parte dell’establishment e di porzioni della società regionale, gli investimenti legati al Pnrr possono rafforzarle. Per questo è vitale assegnare alle ricadute del Piano in Calabria un chiaro, forte e condiviso disegno intenzionale; un disegno che si pone esplicitamente l’obiettivo di affermare una nuova cultura, un nuovo metodo di programmazione, nuovi assetti e nuove logiche politico-istituzionali.
Bisogna innanzitutto interrogarsi a cosa può servirci il Piano, cosa vogliano conseguire, cosa vogliamo cambiare. Insomma, dare centralità agli obiettivi, alle trasformazioni attese, ad obiettivi in grado di “parlare” ai calabresi, di motivarli e mobilitarli. Non serve dunque un disegno “freddo”, ideato e costruito in qualche stanza della Cittadella di Germaneto o, peggio, da consulenti esterni; né serve un programma di interventi “perfetto”, onnicomprensivo, tecnicamente complicato e gergale. Serve invece un piano “partecipato”, costruito attraverso la raccolta paziente delle conoscenze disperse nei luoghi, dei bisogni e dei desideri sociali, delle esperienze e delle competenze sedimentate nelle comunità locali, della conoscenza scientifica utile alla modernizzazione prodotta nelle università e nei centri di ricerca.
Un piano è prima di tutto ascolto, interazione, dibattito pubblico informato, sostanziale, aperto ai diversi punti di vista delle diverse istituzioni, delle organizzazioni sociali, del terzo settore, ma anche alle idee dei singoli cittadini. Non un confronto come puro adempimento formale, burocratico, estemporaneo, generico, come purtroppo accade il più delle volte. Vanno sentiti i calabresi, i sindaci e la società organizzata, le istituzioni intermedie e gli innovatori sociali; vanno ascoltati i loro bisogni, le loro sofferenze, i loro sogni; vanno scovati e coinvolti i formicolii sociali locali. Il nuovo non emergere dai circuiti decisionali asfittici, autoreferenziali, sempre identici. Tanto più in una regione come la nostra da troppo tempo sul piano inclinato della decadenza, così disuguale, così frammentata, così rassegnata al peggio. Tanto più oggi costretti dal Covid al purgatorio istituzionale di un esecutivo regionale con poteri dimezzati e con modesta legittimazione democratica. Tanto più oggi il nuovo può nascere solo dal coinvolgimento, dalla voce e dall’attivazione di conoscenze e saperi diffusi, della passione e delle esperienze radicate nelle città, nei paesi, nelle campagne, delle puntiformi capacità innovative presenti nelle imprese, nelle scuole, nelle amministrazioni pubbliche.
Le azioni, gli interventi e i progetti vengono dopo non prima. Non porta a nulla partire dalle liste minestrone di progetti disparati, slegati, polverosi. Anche quando sono infarciti di parole nuove che però non parlano, perché distanti dalla vita nuda, perché non lasciano intravedere cambiamenti e miglioramenti reali. Le liste servono al più per il consenso elettorale non per lo sviluppo e il benessere collettivo, né per cambiare direzione. Piuttosto che elenchi disordinati e raffazzonati di interventi, dovremmo assumere l’onere di dimostrare l’utilità sociale di ogni singolo progetto, il suo contributo specifico al miglioramento della qualità della vita delle persone, valutare che siano davvero soldi ben spesi. E di sottoporre ogni singolo progetto al monitoraggio e alla valutazione pubblica di tutti i cittadini, fornendo in modo continuativo dati e informazioni sull’avanzamento, le criticità, i ritardi e sugli impatti degli interventi sulla vita delle persone, delle imprese, dell’ambiente. Inoltre, non basta mettere in fila progetti la cui cosiddetta “cantierabilità” resta confinata nel perimetro stretto del singolo intervento: la ristrutturazione e l’adeguamento sismico di un edificio scolastico deve essere l’occasione per collocare la scuola nello spazio circostante, per alimentare e potenziare la comunità educante; la realizzazione di un centro sportivo polivalente deve diventare l’occasione per riprogettare il sistema della mobilità umana locale. Così come non serve costruire asili, musei, centri di aggregazione se poi non si hanno le risorse ordinarie per aprirli e gestirli, per assumere il personale di qualità adeguata per farli funzionare. La vita collettiva migliora se i manufatti sono utilizzati, se gli asili ospitano i bambini, se i musei accolgono i visitatori, se i centri di aggregazione sono frequentati dai cittadini. Le opere pubbliche inutilizzate o malutilizzate sono un costo non un beneficio.
Non conta neppure la spesa in sé, la mera dotazione finanziaria, da sempre l’ossessione pressoché esclusiva dei ceti politici e amministrativi e dei loro addentellati tecnico-professionali. Non basta avere a disposizione quantità rilevanti di risorse finanziarie se non si è in grado di utilizzarle al meglio e soprattutto se il loro impiego non è destinato a conseguire risultati apprezzabili, tangibili, misurabili per il benessere calabresi. Il rischio, sempre in agguato, è quello che Marcello De Cecco chiamava il “keynesismo delinquenziale”: spesa pubblica che non induce miglioramenti sociali, che non cambia la condizione delle persone e delle imprese, che al contrario foraggia clientele, corruzione, criminalità mafiosa e non. La spesa è uno strumento per accrescere il ben-vivere collettivo, per ridurre disuguaglianze e fratture, per accrescere le opportunità per i soggetti più svantaggiati e fragili. Ancora: i risultati non sono, come spesso si pensa, realizzare una strada, recuperare un palazzo signorile, organizzare corsi di formazione per disoccupati, erogare incentivi alle imprese, costruire una scuola. I risultati sono ciò che si vuole cambiare con quegli investimenti pubblici: ridurre il numero di incidenti attraverso la costruzione di una nuova strada, destinare a biblioteca e luogo di incontro pubblico il palazzo restaurato, aumentare il successo occupazione dei disoccupati che hanno seguito il corso di formazione, accrescere l’innovazione e le esportazioni delle imprese incentivate, accogliere gli alunni in una scuola più sicura e aumentare la qualità del loro apprendimento.
Per inciso, paradossalmente la nostra regione non mostra un deficit di risorse finanziarie, comunitarie e nazionali, per lo sviluppo. Il problema storico semmai è che queste risorse teoricamente “aggiuntive” di fatto risultano meramente “sostitutive” di risorse ordinarie, queste sì cronicamente insufficienti e declinanti. L’esperienza storica ventennale dei fondi comunitari e di quelli complementari nazionali mostra che la vera criticità è la capacità di spesa pubblica per investimenti del sistema regionale, stabilizzatasi da tempo attorno ad una media, particolarmente bassa, di 350 milioni di euro all’anno. È soprattutto per questa ragione che la Calabria, come è noto, dimostra un’endemica difficoltà a spendere con rapidità, efficienza ed efficacia le risorse a disposizione, che costringe il ricorso continuo ad artifici contabili e a rendicontazioni di facciata per non incappare nel disimpegno dei finanziamenti. Cosa accadrà nel prossimo biennio quando la nostra regione avrà a disposizione fondi stimabili in circa 2 miliardi di euro all’anno, provenienti dal Pnrr, dalle programmazioni comunitarie e nazionali 2014-20 e 2021-27 e da altre fonti europee? Come è possibile moltiplicare per sei l’attuale capacità di spesa del sistema calabrese se non si immette rapidamente nella pubblica amministrazione regionale e comunale una nuova e ampia generazione di giovani dipendenti pubblici motivati, capaci, animati dalla voglia di mettersi alla prova e di contribuire al cambiamento radicale della Calabria? Senza una riforma profonda delle amministrazioni pubbliche e delle loro logiche di funzionamento, senza una valorizzazione di coloro che già vi lavorano, senza il reclutamento con forme moderne di tanti giovani “migliori”, senza l’apertura a qualificati saperi esterni, regionali e non, difficilmente la Calabria potrà vincere la sfida del cambiamento.
Alla Calabria servono analisi crude e politiche radicali. Non bastano aggiustamenti al margine, rattoppi ad hoc. Il Pnrr è l’occasione per un ripensamento ambizioso delle politiche pubbliche, dei metodi e dei contenuti; per configurare e realizzare assetti istituzionali e apparati gestionali funzionali al raggiungimento di risultati strategici discussi e maturati nel confronto con la società regionale.
Abbiamo il potere per farlo, per immaginare e scegliere di lottare per un mondo e una Calabria diversi, con meno fratture e meno storture, più coesione e maggiore giustizia sociale.
* direttore della Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche e professore di economia applicata dell’università della Calabria
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