«I problemi di fondo di questa regione sono divenuti sempre più gravi. I cedimenti, i lassismi, le tolleranze, le connivenze verso le cosche mafiose hanno origine da qui. Negli ultimi anni in Calabria si è fatto di tutto per indebolire e scoraggiare il movimento democratico forte e combattivo che, con caratteristiche di vera e propria lotta di massa, si batteva contro la mafia, per mettere in crisi il sistema di potere clientelare, per aprire concrete prospettive di lavoro e di sviluppo. (…) Sono state persino fatte circolare, da varie parti, tesi giustificatorie sul fenomeno della mafia, ammantate da una falsa difesa degli interessi della Calabria». Quando Enrico Berlinguer parla dal palco di una Cetraro listata a lutto per l’omicidio – ancora senza colpevoli – di Giannino Losardo, disegna un quadro della Calabria destinato a perpetuarsi. È il 24 giugno 1980. La regione ha assistito inerme agli assassini di due giovani dirigenti del Pci: prima di Losardo, a Rosarno, era stato giustiziato Peppino Valarioti (anche il suo è un delitto senza colpevoli). Gli occhi della nazione sono puntati sulla Calabria. Il Parlamento ha il merito di discutere (e la colpa di dividersi) sugli interventi da attuare. E quel movimento di massa che Berlinguer vede indebolito diventa una fiammella sempre più fioca.
La ‘ndrangheta, invece, ha le idee chiare. «Il nuovo management criminale calabrese – si legge in una relazione dei carabinieri, sempre datata 1980 – annuncia un modello criminale d’avanguardia in Italia, proteso al superamento dei complessi di subordinazione e alla conquista di poteri assoluti». I documenti – entrambi citati nel volume di Enzo Ciconte “Alle origini della nuova ‘ndrangheta. Il 1980” – aiutano a leggere i fatti, anche a 40 anni di distanza. I carabinieri avevano visto giusto: i clan sono diventati una holding planetaria, fanno affari in cinque continenti. Chi li combatte in prima linea nelle Procure distrettuali sa di farlo, spesso, in solitudine. Quasi tutta la politica delega a comunicati stampa. Anche Berlinguer aveva capito: i movimenti popolari sono praticamente scomparsi, a parte estemporanee manifestazioni di solidarietà.
Sotto l’ombrello della contaminazione mafiosa finisce di tutto. Le macrostorie, per esempio: per i giudici di Reggio Calabria (la sentenza è quella del processo ‘Ndrangheta stragista), le cosche calabresi hanno partecipato (nei primi anni 90, a poco più di dieci anni da quel 1980 che ne ha sancito la trasformazione secondo lo storico Ciconte) a «una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato» assieme a Cosa Nostra. «L’attentato ai danni dei carabinieri» del dicembre ’93 e il duplice omicidio dei militari Antonino Fava e Vincenzo Garofalo si collocano «all’interno di una strategia omogenea e unitaria portata avanti da una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti)». E poi le microstorie. La maxi inchiesta Rinascita Scott spazia tra i tentativi di inquinare processi e indirizzare elezioni alla ricerca di una strada per sistemare pratiche urbanistiche. C’è bisogno di un permesso a costruire in un’area vincolata? Ci pensa un luogotenente del boss Mancuso grazie a un «fratellino» ben sistemato all’interno di un ufficio pubblico. La «conquista dei poteri assoluti» è anche questo. È l’abbraccio con la massoneria, la costruzione di carriere politiche. È il controllo del credito, il “governo” delle pratiche urbanistiche, la gestione del consenso, il rapporto stretto con gli imprenditori che scelgono di non denunciare e chiedono al boss il permesso anche per costruire una recinzione nella loro azienda. Sono tutti tasselli della cappa che toglie ossigeno alla Calabria.
E in Calabria tutto si tiene. Per un imprenditore che denuncia i rampolli del clan Tegano padroni della movida a Reggio Calabria, ce n’è uno che si chiede «ma perché devo dire che sono stati loro?». Qui dove la zona grigia diventa nerissima nei racconti dei pentiti di Rinascita Scott che parlano quasi più dei loro ex avvocati che di sodali e affiliati. Qui dove la copertura mediatica sacrosanta di un processo storico viene posticipata a dopo la lettura della sentenza (nel 2023, se andrà bene) e si prova a sostituirla con lavori imparaticci, approssimazioni inevitabili, semplificazioni rischiose.
Gli elementi per far sì che non sia un nuovo 1980 ci sono tutti. C’è una magistratura che attacca la ‘ndrangheta, a Catanzaro come a Reggio Calabria, e ne delinea gli addentellati nella pubblica amministrazione e nelle professioni. Fa anche di più: prova a tracciare una strada nuova. A proposito del rapporto delle imprese con la legalità, il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha individuato di recente uno dei possibili cambiamenti di prospettiva. È bastata una frase: «Pagare il pizzo per aprire un esercizio commerciale in un territorio in cui ad altri non sarà più consentito farlo liberamente, perché c’è già un imprenditore “di riferimento” di quella cosca, significa beneficiare di un inquinamento della libera concorrenza». Gli imprenditori che non denunciano non sono taglieggiati: rischiano di diventare conniventi. Non più vittime ma beneficiari delle attenzioni mafiose. E qualche idea su politica, burocrazia e dintorni arriva da Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro: «La Calabria ha bisogno di una nuova classe dirigente, fatta da persone che hanno studiato. Capita, ogni tanto, di imbatterci invece, qui in Calabria, nella Pubblica amministrazione calabrese, in gente che è entrata in un ente pubblico come usciere, come autista, e oggi è dirigente. Prenderei tutti i figli degli emigranti, tutti i laureati e tutti i professionisti che sono brillanti e che tornerebbero di corsa in Calabria».
È dalle Procure che arrivano appelli, idee, indirizzi: vincere la paura, fare rete, occupare gli spazi liberati. Tutt’attorno, la società civile è silenziosa, la politica preferisce incensare i magistrati fino a quando non toccano interessi troppo “vicini”. Per dirla con Ciconte, «élite e classi dirigenti intellettuali e politiche hanno rinunciato a offrire una speranza e costruire un futuro nuovo per la Calabria». Non ha forse senso chiedersi cosa farebbero Valarioti e Losardo davanti alla ‘ndrangheta divenuta moloch globale.
I fatti, le inchieste, gli attacchi (non nuovi) alla magistratura, l’estensione della zona grigia. È tutto ben visibile: la Calabria è arrivata al punto di non ritorno. O si cambia il quadro o non avrà più senso coniugare i verbi al futuro. (p.petrasso@corrierecal.it)
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