CATANZARO Le dichiarazioni più importanti, sugli omicidi, sono quelle attraverso le quali Nicolino Grande Aracri – il potente boss di Cutro che aveva deciso di parlare con i magistrati di Catanzaro – mostra il volto falso del pentimento. Secondo chi lo interroga – il procuratore Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Capomolla e i sostituto Domenico Guarascio e Paolo Sirleo – quelle parole altro non sono che il « tentativo difensivo di offrire un paravento per i propri familiari e sodali più stretti».
Si tratta di una serie di omicidi efferati che hanno insanguinato il territorio di Isola di Capo Rizzuto e Cutro negli anni dal 1999 al 2005. Sono gli omicidi esaminati nei processi Kyterion e Scacco Matto per i quali vi è stata sentenza definitiva nei confronti di Nicolino Grande Aracri, Salvatore Nicoscia, Martino Vito, Ernesto Grande Aracri, Angelo Greco, detto Lino.
Sugli omicidi anche le parole degli stessi collaboratori di giustizia vengono sminuite da Grande Aracri.
Quelle di Nicolino Grande Aracri non sono solo, secondo l’antimafia di Catanzaro, ricostruzioni «alternative» ma anche «generiche, illogiche e fantasiose in sé, il che dimostra ancora una volte il fine strategico del presunto collaboratore di giustizia».
Grande Aracri nega, sminuisce, la sanguinosa faida tra i Grande Aracri e i Dragone che portò all’omicidio di Raffaele Dragone, un omicidio per il quale il boss – che in più di una occasione sminuisce anche il proprio ruolo – incolpa la famiglia Capicchiano. Incurante di infrangersi contro le dichiarazioni del collaboratore Angelo Salvatore Cortese che dice di avere appreso dallo stesso Raffaele Dragone che il padre, Antonio Dragone, gli aveva suggerito di agire per primo, non fidandosi di Grande Aracri. E incurante anche di andare a sbattere contro le intercettazioni nel 2000 nel carcere di Solliciano e intercorrente tra Dragone Antonio e Giuseppe Ciampà dove emerge il proposito del Dragone di uccidere Grande Aracri Nicolino. Un consiglio che il figlio Raffaele non ascolta. E Nicolino Grande Aracri non gli ricambia la cortesia: il 2 luglio 2007 Raffaele Dragone muore in un agguato.
«I Capicchiano l’hanno ammazzato a Dragone, non l’ha ammazzato… non l’hanno ammazzato diciamo per conto mio, però diciamo io alla fine mettiamo, alla fine mettiamo io sapevo cosa succedeva diciamo alla fine, questo sapevo, infatti diciamo se voi vedete, no? …nelle intercettazioni l’omicidio Dragone non ha mai uscito né l’esecutore e u mandante… m’hannu misu mandante perché lo ha detto Cortese, lo hanno detto altre persone, perché diciamo “me lo ha detto quello e me l’ha detto quell’altro”. Però alla fine mettiamo non sapeva nessuno niente d’i cose. Quando io facevo i fatti lo sapevo io e quelli… e quelli che li commettevano». Affermazioni che sono un inedito storico mai rilevato in nessuna intercettazione e in nessuna dichiarazione. Eppure sull’omicidio di Raffaele Dragone hanno parlato i collaboratori Cortese, Liperoti, Valerio. Ma il boss non si smuove: « Ma Liperoti e Valerio con mmia c’hanno mai fatto qualche cosa?», chiede.
Il pm Guarascio gli ricorda che per un periodo ha collaborato anche Nicolino Sarcone il quale ha riferito che lui rispondeva a Nicolino Grande Aracri.
Il procuratore manifesta la propria preplessità a Grande Aracri: niente combacia con quello che sta raccontando neanche la causale dell’omicidio: « cioè na paroliata cu nu Capicchiano».
Nicolino Grande Aracri ribatte che i fatti devono essere guardati a partire dagli anni ’80. « Perché noi dobbiamo prendere mettiamo tutti i fatti che sono successi prima. Dragone ha ammazzato i Capicchiano e i Capicchiano hanno ammazzato pure qualcuno dei Dragone, nu niputa, u maresciallo dei carabinieri e lui c’è rimasto ferito grave».
Grande Aracri esclude che la volontà di uccidere Raffaele Dragone sia ascrivibile al suo gruppo, nella faida intrapresa fra le due famiglie.
Grande Aracri nega o mostra di non sapere i particolari dell’omicidio del boss Antonio Dragone. Il boss nega «che vi abbiano preso parte il fratello Ernesto Grande Aracri – annotano i magistrati della Dda – o altri soggetti già condannati per tale omicidio, trincerandosi, quanto alla mancata conoscenza di un omicidio invero dichiarato esiziale per le sorti della faida fra le due famiglie (una delle quali capeggiata dal dichiarante), sul suo perdurante stato di detenzione, conoscenza nemmeno colmata dalla sua successiva scarcerazione; circa il coinvolgimento del genero Abramo, il dichiarante lo attesta e però afferma come tale coinvolgimento sia stato taciuto dal genero al fratello Ernesto Grande Aracri, capo libero del suo gruppo di ‘ndrangheta al momento dei fatti per stessa ammissione del dichiarante, la qual cosa appare francamente incredibile, avuto riguardo ai rapporti di gerarchia interni al sodalizio».
Sull’omicidio di Antonio Macrì, interviene, senza mezzi termini il porcuratore Gratteri quando Grande Aracri cerca di far credere che il delitto sia da addebbitare a Gaetano Ciampà e Salvatore Arabia. Non solo. I due, vicini alla famiglia Dragone, «avrebbero richiesto, per il trasporto del corpo nascosto in un carrellone pieno di letame, un mezzo agricolo proprio al fratello Ernesto Grande Aracri, che quindi avrebbe trasportato personalmente il cadavere di Macrì, incredibilmente inconsapevole della sua presenza nel carrellone».
A questo punto interviene il procuratore Gratteri.
Gratteri: « In quale anno è questo omicidio?»
Grande Aracri: «Nel 2000 è avvenuto l’omicidio»
Gratteri: «Nel 2000 è avvenuto l’omicidio»
Grande Aracri: «Io nel 2000 avìa il padrino»
«E le sembra logico che delle persone si permettano solo a pensare di creare, di coinvolgere il fratello del “padrino” nel trasporto di un cadavere e senza che poi succedesse niente? Cioè, nella logica di ‘ndrangheta, lei il giorno dopo, tutte quelle persone che hanno – stando al suo racconto – inconsapevolmente fatto trasportare il cadavere a suo fratello, li avrebbe dovuti squagliare come il sapone! Lei cosa ha fatto dopo questo, stando al suo racconto? Perché io non credo a questa cosa che lei sta dicendo, che suo fratello non sapeva che stava trasportando un cadavere non ci credo».
Grande Aracri si smarca, dice che «poi lo abbiamo scoperto noi», «Che io ero il padrino, loro avevano pure, diciamo, le doti alte, potevano avere pure il padrino, non è che, mettiamo, perché io avevo il padrino. Lì c’erano tre cosche, c’era Ciampà, Dragone e Grande Aracri».
Ma sta scivolando. Dice che quando lo ha saputo «poi mi sono arrabbiato tantissimo».
Gratteri: «E la sua rabbia come l’ha sfogata?»
Grande Aracri Nicolino «E come l’ho sfogata? Io mi sono arrabbiato tantissimo».
Quello davero arrabbiato però, in quel frangente, è il procuratore Gratteri: «Suo fratello è stato usato».
«Sì, è stato usato», ammette Grande Aracri
«E poi lei non ha reagito? Che capo è lei se non ha reagito?», gli dice Gratteri.
Niente, è l’inizio della fine.
Grande Aracri nega, sminuisce. Dice che l’omicidio di Franco Arena sarebbe il frutto di “una rapina andata a male”, in aperto contrasto con le ricostruzioni della sentenza, passata recentemente in giudicato, nella quale Salvatore Nicoscia è stato condannato all’ergastolo. Nella mente della distrettuale di Catanzaro la collaborazione è già agli sgoccioli. Nicolino Grande Aracri non passa la prova per lo status di collaboratore di giustizia. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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