CORIGLIANO ROSSANO Il bacio alla croce lignea della Cattedrale Santissima Achiropia di Rossano, il saluto con il suo predecessore mons. Giuseppe Satriano e la benedizione ai fedeli. Si è insediato alle 17.25 di oggi il nuovo arcivescovo della Chiesa di Rossano-Cariati, mons. Maurizio Aloise.
Il nuovo pastore è entrato in diocesi questa mattina, baciando il terreno di quello che è stato il campo di concentramento di Tarsia. Prima di giungere in cattedrale, don Maurizio ha fatto anche tappa al PalaBrillia, il centro hub vaccinale per salutare e ringraziare per l’impegno il personale sanitario.
In cattedrale, poco prima della celebrazione eucaristica, alla presenza di mons. luigi Renzo, vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea, già parroco della Cattedrale di Rossano per tanti anni e di mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace, mentore di don Maurizio, il sindaco di Corigliano Rossano ha dato il benvenuto al nuovo pastore.
«Le porgiamo il benvenuto una terra storicamente ospitale – ha detto Flavio Stasi –. Terra crocevia di popoli e culture, terra di Magna Grecia, in cui l’ospite assume un valore molteplice e complementare. Terra di migrazione di popoli da secoli: dai coloni giunti dalla Grecia a fondare Sibari e Thurii nell’VIII e V sec. avanti Cristo, alla civiltà Bizantina, sino a quanti, su imbarcazioni di fortuna, giungono oggi sulle nostre coste per trovare una vita che possa assicurare dignità e certezze. Le porge il benvenuto una terra dal profondo intrinseco patrimonio culturale dal valore inestimabile e dalle tradizioni che parlano anche di una religiosità diffusa e profonda, verso il quale lei ha già mostrato attenzione: dal santuario di San Francesco, padre di tutti i calabresi, alla donna dipinta da mano non umana verso i quali è massima la devozione dei concittadini, dall’evangelario unico al mondo realizzato su pergamena purpurea, vergato con caratteri in oro ed argento, fino alla suggestione che suscita ancora in ognuno di noi, dopo più di mille anni, il complesso monastico del Patire ed il contesto naturale in cui si integra. E lei assurge al ruolo di pastore di questo splendido ed amato territorio in un momento importante, certamente non facile per il pianeta come per la nostra comunità, ma anche pieno di opportunità e di speranza».
«La pandemia che sembra aver allentato la sua morsa – ha sottolineato ancora Stasi – ha lasciato sul suo cammino dolore, spavento, incertezze e difficoltà. Ha mutato il nostro modo di vivere, di rapportarci, di lavorare, di divertirci. Ha mutato il nostro concetto di normalità ed ha rallentato o stravolto ogni piano personale e collettivo, proprio mentre la nostra comunità sta affrontando una sfida storica, epocale, importante, quella dell’unione amministrativa e sociale di due realtà che prima camminavano lungo strade autonome e che oggi rappresentano una delle città più importanti della Calabria, riferimento dell’intera fascia ionica. Il suo arrivo giunge nella città del Codex e del Castello ducale proprio mentre la nostra comunità, nel suo complesso, inizia a rivivere i propri luoghi, la socialità, l’aggregazione senza la quale si disperde e disorienta; mentre sospira fiduciosa prima di una ripartenza sociale, produttiva, economica, culturale, umana. Sicuramente una sfida certamente difficile, alla quale sono chiamate tutte le Istituzioni e che possiamo e dobbiamo affrontare insieme. Benvenuto nel segno di un cammino che dev’essere autonomo ma condiviso, armonico, teso al perseguimento del bene comune. Abbiamo tanto su cui lavorare ed intervenire: dai bisogni sociali e dalle fragilità numerose accentuate da mesi di pandemia, sino alle piaghe molteplici che penalizzano questa terra a partire dalla criminalità organizzata, in tutte le sue declinazioni, che nella disgregazione sociale e difficoltà economiche generate da mesi di pandemia di certo si è insinuata, penalizzando la nostra terra e la nostra gente. Questa è una delle sfide più grandi che affronteremo insieme. Impegniamoci – ha concluso il primo cittadino – ciascuno per la sua parte, affinché questa terra possa essere bellezza autentica, luogo in cui vivere, convivere ed accogliere serenamente, come meritano le nostre belle comunità».
Il sindaco Stasi ha poi donato una opera all’Arcivescovo. Le mani unite rappresentano il Comune e la Chiesa che insieme sorreggono la terra su cui nascono le piante simbolo del territorio: l’ulivo ed il clementino raffigurati in forma intrecciata e la liquirizia che con le foglie copre e avvolge le radici come in un abbraccio. “Lavorare insieme per crescere insieme” è la frase incisa che vuole ispirare il cammino sinergico fra Comune e Chiesa.
Nel corso dell’omelia, mons. Aloise ha citato il Codex Purpureus Rossanensis, il «seme gettato nel terreno» e la seconda lettera ai Corinzi, ed il passaggio secondo cui «tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo»
«Il significativo brano del vangelo secondo Marco, proclamato oggi – ha detto don Maurizio – riprende l’oracolo di Ezechiele sulla crescita rigogliosa di un seme di cedro. Originario della Cina e India meridionale, il cedro è stato introdotto nell’area mediterranea molto prima dell’era cristiana ed era già coltivato anche nella Giudea, anzi è stato il primo agrume a essere coltivato in Israele, utilizzato in occasione della Festa dei Tabernacoli. Esso simboleggia l’albero della conoscenza, come nel racconto biblico delle origini. La bellissima immagine vegetale del profeta Ezechiele viene ripresa e rilanciata oggi dalle parabole evangeliche del piccolo seme e del granello di senape. Il granello di senape, piccolissimo come la punta di uno spillo, è caratterizzato da estrema piccolezza ma da grande dinamismo vitale, in quanto cresce e, quasi sfuggendo al controllo del contadino, raggiunge anche i tre metri di altezza: «Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami» (cfr. Mt. 13,32). Per questa forza vitale, il granello di senape, è simbolo del Regno di Dio, il cui dinamismo sfugge a ogni umano controllo. Del resto, le parabole del seme nel quarto capitolo del Vangelo di Marco hanno il compito di far “esplodere” davanti ai nostri cuori il senso del Regno di Dio. Dall’evangelista l’immagine agricola viene piegata a dire qualcosa che non è più semplicemente naturale: il mistero di una Chiesa, piccolo arbusto che diventa capace di accogliere tutti i popoli della terra! Grandiosa efficacia della narrazione di Marco! Tutto ciò non suscita immediatamente nel nostro cuore, carissimi, il ricordo del ritratto di Marco, l’unica figura di evangelista rimasta in un codice greco dei Vangeli, anteriore al X secolo, qual è appunto il nostro prezioso Codex purpureus rossanensis? Questa testimonianza emblematica della Rossano bizantina, insieme con l’icona molto venerata dell’Achiropita e con le chiesette bizantine di San Marco e della Panaghia, così come l’abbazia di Santa Maria del Patire, ci ricorda il dovere primario dell’evangelizzazione nuova, a cui siamo chiamati in questo nostro tempo di reset globale, di rinascita e rinnovamento dopo la buia stagione della pandemia, che ancora affligge il mondo. Dobbiamo diffondere il piccolo seme della Parola di Dio. Il Codex, quest’insigne evangeliario, ci ha comunque risparmiato la perdita del Vangelo di Matteo e di quasi tutto quello di Marco. Delle 14 miniature conservate nel codice, di cui dodici raffigurano eventi della vita di Cristo, l’ultima è, come tutti sappiamo, il ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina. Alla miniatura di Marco voglio oggi con voi guardare particolarmente: l’evangelista viene raffigurato mentre scrive sul rotolo pergamenaceo il suo Vangelo, lasciandosi ispirare da una donna – presumibilmente la Sapienza stessa di Dio, ma perché non vedervi la Vergine Santa –, che gli indica i punti su cui indugiare. Indugiamo oggi sulla potenza del piccolo seme della Parola di Dio: animato dallo Spirito Santo, questo seme possiede in proprio il potere di fruttificare; ma domanda di essere annunciato e seminato da noi sul buon terreno. Facilitiamo la diffusione di questo seme di origine divina, carissimi, lasciamolo germogliare e crescere, seminandolo nelle intelligenze e nei cuori di tutti. Il terreno che lo accoglie produrrà spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto sarà maturo, subito il Coltivatore manderà la falce, perché è arrivata la mietitura. Potenza, primato e forza della Parola di Dio, anche indipendentemente dai suoi annunciatori, presbiteri, predicatori e catechisti! Mettiamoci volentieri al servizio di quest’annuncio, carissimi! Diventiamo una comunità generativa e feconda, diffondendo la Parola fatta carne in Gesù Cristo! Alcuni vorrebbero vedere nel Vangelo di Marco un itinerario di fede specifico per i catecumeni (coloro che ricevono l’insegnamento orale, che ascoltano dalla viva voce). Nelle nostre terre, anche i battezzati sono, talvolta, come dei catecumeni, in quanto devono da capo ricevere abbondantemente il seme della Parola di Dio. Come il Marco raffigurato nel nostro Codice, lasciamoci guidare dalla mano di Cristo, Sapienza incarnata. Cristo è la concretizzazione personale del Regno di Dio, la cui forza di attuazione è dirompente. Non vi sembra questa, carissimi, una chiarissima indicazione di percorso per la nostra Arcidiocesi? Non vorremo noi porre al primo posto la riscoperta del primato della Parola di Dio? Se adesso questo nostro mondo è ancora governato dalla potenza del denaro, dell’inganno e della forza (la potenza di Satana), ci viene oggi ricordato che si fa vicino un diverso momento, in cui Dio stesso prenderà nelle sue mani il potere. Si va instaurando la sovranità della Parola di Dio che significa giustizia, concordia, pace, pienezza di vita. Il regno di Dio è già presente nella persona di Gesù, nelle sue Parole: comunichiamolo alle folle e al mondo, a partire dai presbiteri e dai catechisti, fino all’ultimo dei fedeli: «Siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23). Perché la Parola produca frutto, carissimi, basta seminarla, assecondando il Vangelo sine glossa: tutto il resto viene da sé. Forse che il contadino, dopo la semina, si ferma nel campo per ricordare al seme che deve germogliare? Il seme non ha bisogno di lui, è autosufficiente: ha in sé tutto il necessario per crescere e diventare spiga matura. Oggi, sorelle e fratelli tutti, abbiamo ascoltato dall’evangelista Marco come tutta la grandezza del regno celeste è paragonata a un granello di senape. E come mai una similitudine così piccola, una similitudine così minima, anzi minima tra le minime, comprende un così grande potere? Questa è tutta la speranza dei credenti, questa è l’attesa più grande di noi fedeli. Questa è la felicità delle vergini, acquistata con le lunghe prove della castità. Questa è la gloria dei martiri, guadagnata con lo spargimento di tutto il sangue. Questo è ciò che occhio non vide né orecchio udì né mai entrò nel cuore di essere umano; questo è ciò che l’apostolo assicura che è stato preparato con un mistero ineffabile per coloro che amano: noi, sorelle e fratelli carissimi, ne siamo gli umili servitori».
La seconda Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto «ci presenta oggi – ha detto ancora mons. Aloise – il chiaro annuncio del mondo che sta per venire. È l’annuncio del tempo delle cose ultime, che si manifesteranno per ciascuno di noi al momento del transito (credo la resurrezione dei morti) e, per tutti noi, al momento della resurrezione finale (e la vita del mondo che verrà). Pensiamo agli ultimi tempi, carissimi, proprio mentre viviamo nella contingenza e nel frattempo! Pensiamoci quando il dolore si fa più forte, quando le inimicizie, le vendette e i tradimenti ci abbattono, quando sembra che all’orizzonte non ci sia nulla di buono e di promettente… È un invito al senso della precarietà, ma anche della speranza in Dio; un appello a non crederci infiniti, eterni e onnipotenti. È una lezione che abbiamo ricevuto a lungo, in questi mesi, anche dal virus coronato e dai suoi deprecabili effetti nella vita di tanti, che ne sono stati colpiti e abbattuti; abbiamo imparato il significato della precarietà del nostro stare al mondo. Cosa ne deriva per la nostra esistenzaquotidiana? Ascoltiamo tutti, a partire dai presbiteri, un’ammonizione di san Policarpo di Smirne: «Anche i presbiteri abbiano viscere di compassione e siano misericordiosi verso tutti, cercando di ricondurre gli sviati, visitando tutti gli infermi, senza trascurare né la vedova, né l’orfano, né il povero; ma sempre solleciti di fare il bene al cospetto di Dio e degli uomini; astenendosi da ogni ira, parzialità, giudizio ingiusto; stando lontani da ogni cupidigia di denaro; non troppo facili a prestare fede alle calunnie contro alcuno, né troppo severi nei giudizi, sapendo che tutti siamo debitori per i nostri peccati» (6, 1). Di qui un analogo appello dello stesso Policarpo a tutti i battezzati: «Se dunque noi preghiamo il Signore di perdonarci, dobbiamo anche noi perdonare; poiché siamo sotto gli occhi del Signore e di Dio e tutti dovremo presentarci al tribunale di Cristo e ciascuno dovrà rendere conto di sé. Serviamolo dunque con timore e con ogni riverenza, come ci fu comandato da Lui e dagli Apostoli, che ci predicarono il Vangelo, e dai profeti che ci preannunciarono la venuta del Signore nostro; siamo zelanti per il bene, evitando quelli che danno scandalo, i falsi fratelli e coloro che, portando ipocritamente il nome del Signore, trascinano nell’errore gli uomini vuoti» (6.2,3)».
Il nuovo pastore dell’Arcidiocesi di Rossano-Cariati ha concluso con la preghiera alla Madonna Achiropita (dal greco, “non dipinta da mano umana”, ndr). (l.latella@corrierecal.it)
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