Il Covid 19 ha giustamente attratto l’attenzione globale delle Istituzioni statali complessivamente, prima di tutte il Governo impegnato ad esercitare l’attività di “profilassi internazionale”, cui la Corte costituzionale (sentenza 37/2021) ha rinviato ogni attività anti pandemica, relativamente alla vaccinazione di massa. Un’attrazione doverosa di competenza normativa in capo allo Stato ma che, per un versante, ha distratto – chi ne avesse titolo costituzionale (le Regioni) – dal pensare a riorganizzare il sistema della salute, tenuto conto delle gravi precarietà e dei grandi limiti che il servizio sanitario nazionale ha dimostrato di possedere, specie nell’ultimo biennio. Di essere divenuto la brutta copia di quanto disegnato dalla grande riforma sanitaria del 1978, che lo istituì in un modo tale da essere apprezzato dal mondo intero.
L’aziendalizzazione e le storture della concorrenza amministrata – che da campione ideale di convivenza ottimale tra pubblico e privato è divenuta merce di scambio della politica con il mondo degli affari, influenzato non poco dalle mafie – hanno fatto il resto facendoci ereditare un sistema inefficiente che ha dimostrato tutta la sua inefficacia con il suo girare a vuoto nell’affrontare la pandemia.
Al di là della generale convinzione di espellere la politica dalla gestione della salute, alla quale è brancicata da decenni facendo danni e praticando ruberie inenarrabili, si rende necessaria una diversa ripartenza della sua organizzazione che salvaguardi l’immediato, intendendo per tale la fase che separa l’oggi dalla concretizzazione della programmazione riedificante l’assistenza territoriale disegnata nel PNRR. Un’esigenza che per concretizzarsi non può prescindere dalla ineludibile rilevazione dei fabbisogni epidemiologici differenziati per realtà regionali e, all’interno di queste, da quelle che caratterizzano i singoli territori.
Il fenomeno dovrebbe riguardare altresì il tempestivo riconcepimento del ruolo del distretto sanitario, di fatto preparatorio ad assorbire – in una prima fase – le attuali aggregazioni professionali (Aft) e le strutture (Uccp) di erogazione dell’assistenza primaria e la rete delle Usca, invero non campione di incasso in termini di efficienza, e – successivamente – i presidi di prossimità, siano essi case ovvero i new-hospital di comunità. Una previsione, quest’ultima, cui dovrà darsi una pianificazione segnatamente diversificata, che tenga conto delle realtà geo-demografiche, orografiche, economiche e culturali interessate, che hanno vissuto negli ultimi anni la desertificazione progressiva della rete assistenziale e quindi subito l’abbandono totale delle persone. Dunque, un distretto sociosanitario che ritorni ad essere quello idealizzato dalla legge 833/1978. In quanto tale espressione di un’assistenza integrata resa in modo centrifugo, tale da raggiungere gli individui ad esso assegnati ove gli stessi nascono, vivono e muoiono, piuttosto che essere relegato alla sua funzione strutturale centripeta, finanche con prevalenza burocratica.
Un altro fenomeno, cui occorre dare una celere soluzione, è quello che riguarda il rapporto Ssn con il sistema fondato sul percorso delle 3A: autorizzazione all’esercizio, accreditamento e accordo contrattuale Una metodologia nata all’insegna della sana competizione pubblico-privato che è, tuttavia, finita con lo scombinare il sistema a tutto vantaggio del privato che ha schiacciato l’attrattività dell’offerta pubblica, soprattutto quella rappresentata dagli IRCCS privati contrattualizzati ope legis, che prevalgono sensibilmente su quelli pubblici con un valore di 30 su 51, ma anche da una rete di strutture pubbliche non sempre all’altezza del loro compito, specie nel sud del Paese.
Al riguardo, occorrerebbe rivedere le regole. La prima è quella che disciplina l’accesso alla stipulazione dei contratti, ereditati pedissequamente di anno in anno, senza che la scelta fosse determinata a seguito di procedure agonistiche, che assicurerebbero la presenza dei migliori e una adeguata trattativa sui prezzi di acquisto delle prestazioni. La seconda riguarda la normazione accurata della regressione tariffaria, impeditiva delle indebite pretese di pagamento dell’extrabudget che hanno distrutto le economie dei sistemi sanitari del Mezzogiorno, Calabria in primis, ove è stata retribuita per decine e decine di milioni in presenza addirittura di sentenze, finanche di secondo grado, che ne negavano la dovutezza. Una siffatta scelta darebbe modo di conseguire due risultati dagli effetti immediati: la certezza del funzionamento della struttura per acuzie e diagnostiche per 365 giorni l’anno, e non già sino al raggiungimento del budget contrattualizzato; il pagamento limitato ai budget preventivamente convenuti indipendentemente se rese al di là del medesimo.
Per maggiore chiarezza dell’assunto, la regressione tariffaria, così come definita dal Consiglio di Stato (sez. III, n. 3809/2018), si concretizza con l’esercizio di un potere di controllo della spesa sanitaria che consente di recuperare ai Ssr le somme correlate a prestazioni erogate da strutture accreditate/contrattualizzate eccedenti i tetti di spesa complessivi fissati dalla programmazione sanitaria regionale e i limiti delle risorse rese disponibili (budget) discendenti dai vincoli della finanza pubblica.
Due soluzioni, queste, che farebbero tanto bene – per esempio – alla Calabria, distrutta da commissariamenti ad acta affidati a soggetti non propriamente ideali, ove persino si fa fatica a rintracciare strutture pubbliche in possesso dei requisiti minimi e private legittimamente accreditate. Queste ultime esistenti e funzionanti liberamente, nella quasi totalità senza accreditamento, solo per la «generosità» di un management regionale (e quindi anche commissariale) che altrove sarebbe stato mandato in esilio. Una situazione disagevole alla quale occorrerebbe trovare una soluzione legislativa di sanatoria dell’esistente, alla quale dovrà interessarsi il nuovo presidente della Regione.
*docente Unical
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