CATANZARO Anche la pandemia ha dimostrato (se ce ne fosse stato ancora bisogno) le profonde divisioni che separano il Sud e il Nord del Paese e che hanno per questo generato effetti differenziati. Così sull’occupazione le fratture tra le due aree sono risultate evidenti, dimostrando ancora una volta che a pagare il prezzo più alto sono le categorie più fragili che territorialmente si trovano al Sud. E la Calabria, in questo senso, è tutt’altro che un’eccezione, come ha dimostrato l’ultima rilevazione dell’Istat ripresa da Bankitalia: la riduzione degli occupati su base annua è stata di 4,3 punti percentuali. Oltre il doppio della media italiana.
E peggio è andata per quei soggetti storicamente più deboli: donne, giovani e lavoratori atipici. A chiarirlo, in questa direzione, oltre al rapporto “Economie regionali” di Bankitalia anche un report realizzato da Svimez per conto dell’ente bilaterale confederale Enbic. Nel rapporto “Il lavoro nella pandemia: impatti e prospettive per persone, settori e territori” è infatti emerso che ci sono stati effetti asimmetrici della pandemia sul lavoro tra le aree ricche e quelle più arretrate del Paese. Anche se nel corso del 2020 il calo dell’occupazione è stato omogeneo nelle due zone del Paese (attorno al 2% in entrambe le aree) – non per la Calabria, appunto – nel Mezzogiorno sono state le donne e i giovani a sopportare maggiormente il peso della crisi.
Stando ai dati della Svimez, infatti la flessione nell’occupazione femminile al Sud è stata pari al 3% contro il 2,4% del Centro-Nord. Ancor peggio è andata la situazione degli under 35, nel Mezzogiorno si è registrato -6,9% a fronte del -4,4% della parte più ricca del Paese. E sul fronte del lavoro.
Numeri, evidenziano gli analisti, che non tengono ancora conto di quelli che definiscono “disoccupati virtuali” costituiti dal popolo dei cassaintegrati e dei lavoratori mantenuti in opera solo per effetto del blocco dei licenziati.
Quando scadrà la proroga di quella misura varata in tempo di piena pandemia per contenere gli effetti devastanti sull’occupazione, gli analisti valutano ricadute pesantissime in termini di perdita di posti di lavoro. Soprattutto in quei settori che maggiormente hanno subito la crisi pandemica. Allo stato quel blocco resta in piedi fino al 30 giugno e se il Governo Draghi non dovesse firmare una nuova proroga – auspicata soprattutto dai sindacati – con molta probabilità ci sarà una ecatombe sociale. Allo stato è difficile fare esatte previsioni di cosa possa accadere dopo il primo luglio. Anche se qualcuno ha azzardato a dare qualche numero come il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri che ha parlato di «uno tsunami di licenziamenti», ipotizzando in Italia fino a due milioni di posti di lavoro che andrebbero in fumo.
Di certo non si presenta un’estate serena per molti lavoratori che, con una crisi economica ancora in corso e con segnali di ripresa che restano allo stato timidissimi, soprattutto in regioni deboli come la Calabria potrebbero essere messi letteralmente alla porta tra pochi giorni.
Ed i numeri che provengono dal rapporto Svimez-Enbic incrociandoli con quelli di BankItalia, dimostrano come proprio territori fragili, come quello meridionale e calabrese in particolare, hanno sofferto maggiormente gli effetti di quella crisi e, dunque, saranno più soggetti ad eventuali contraccolpi dello sblocco dei licenziamenti.
Una miscela esplosiva – composta dallo strascico degli effetti di quella crisi che ha ridotto al lumicino la tenuta economica delle imprese e dal via libera, appunto ai licenziamenti – che innesterebbe su un tessuto storicamente fragile come quello calabrese una bomba sociale senza precedenti.
Lo shock economico conseguenza del fermo per mesi di intere attività produttive deciso dal Governo per cercare di contrastare il diffondersi del virus ha colpito duramente un mercato del lavoro già “ingessato” in Italia da una serie di fragilità strutturali. La precarizzazione diffusa, ma ancor di più la divergenza di capacità di generare sviluppo e dunque lavoro al Sud hanno prodotto su questi territori effetti dirompenti. Allargando così la forbice con il resto dell’Italia.
Scendendo nel dettaglio emergono discrepanze sugli effetti del mercato del lavoro tra le due aree sia di genere, sia di età, sia di tipologia contrattale ma anche di settore. Così se al Sud il crollo dell’occupazione femminile è più elevato così come per gli under 35, divari si registrano anche sull’occupazione degli stranieri. I numeri degli occupati tra cittadini non italiani nel 2020 flette maggiormente al Mezzogiorno rispetto al Centro-nord e alla media nazionale. Dalle rilevazioni emerge infatti che a fronte di una diminuzione media nel Paese pari 6,4 punti percentuali e 5,8 punti percentuali nel Centro-nord, al Sud la flessione è stata pari a 9,2 punti. A dimostrazione che anche in questo campo a pagare il prezzo più alto della crisi sono stati i soggetti più deboli. Così come differenze tra le due circoscrizioni si denotano sui titoli di studi e le qualifiche professionali. Nel Mezzogiorno la flessione degli occupati con diploma è più marcata (-2,1% rispetto al 1,8% del Centro-nord) e lo è di più se i soggetti sono in possesso di licenza media (-4,7% contro il -3,5% del Centro-nord). Paradossalmente si inverte la situazione per le persone senza alcun titolo di studi: in questo caso la flessione nel Mezzogiorno è stata di 5,2 punti percentuali contro i 12,5 del Centro-nord. Ma è la qualifica che aiuta il Sud a ridurre l’impatto sull’occupazione. Dai dati della Svimez, emerge infatti che al Sud è aumentato – in proporzione – il numero di occupati in professioni qualificate e tecniche più che nel resto del Paese: rispettivamente +0,7% contro la media italiana dello 0,5%.
E differenze si notano su base territoriale anche nei vari comparti produttivi che hanno influito conseguentemente anche su base occupazionale. Così se è il settore dei servizi quello che è uscito devastato dalla crisi, nel dettaglio si nota che il turismo e la cultura sono quelli che hanno risentito maggiormente degli effetti. Ma con differenze tra Sud e Nord. Se nel Mezzogiorno la flessione tra il 2019 e il 2020 è stata più accentuata nel comparto turistico (-12,7% rispetto al 10,7 del Centro-nord), il settore culturale ha avuto un comportamento opposto: +0,9% rispetto ad un calo del 6,6 del Centro-nord.
Numeri che hanno portato gli analisti della Svimez a concludere che la crisi economica e sociale seguita all’emergenza sanitaria da Covid-19 ha determinato effetti territoriali asimmetrici, solo in parte ricomposti dalle pur incisive misure di sostegno del lavoro e delle imprese a causa delle rilevanti differenze strutturali maturate tra Nord, Centro e Sud nel corso della lunga crisi 2008-2014 che hanno determinato capacità di assorbimento e reazione allo shock di intensità molto variabile.
E le conseguenze sull’occupazione sono state marcate anche tra le varie regioni delle stesse circoscrizioni. Dallo studio realizzato dalla Svimez, è emerso che la Calabria ha registrato la più forte battuta d’arresto in termini di occupazione: tra il 2008 e 2020 ha perso oltre il 10% degli occupati (per l’esattezza 10,4%).
Sempre da questo report, si legge che in questo lasso di tempo e in controtendenza nazionale, è sempre la Calabria a segnalare una consistente flessione di posti di lavoro nel settore delle attività di alloggio e ristorazione. In questo comparto la Calabria fa registrare una calo di 8,5 punti percentuali. Anche se tra il 2008 e il 2020 è il settore delle costruzioni che vede quasi dimezzarsi la forza lavoro: -48,3%. A dimostrazione che la pandemia ha flagellato un’economia di fatto in recessione costante. Restringendo la lente solo nel lasso di tempo interessato dagli effetti della crisi pandemica, emerge che sono sempre questi due settori ad avere accusato assieme ad altri servizi collettivi e personali oltre che al commercio, gli effetti più pesanti sul fronte dell’occupazione.
Dal report della Svimez-Enbic, si legge infatti che in un anno la filiera turistica e della ristorazione ha perso per strada il 16,6% degli occupati, stesso dato per il settore dei servizi collettivi e personali. Mentre il comparto edile ne ha smarrito il 15,4% ed il commercio ha visto polverizzare quasi il 10% dell’occupazione.
Segnando, così in diversi settori – tra cui questi – il record nazionale per la media di posti di lavoro immolati sull’altare della crisi pandemica.
Una valutazione emersa anche dall’ultima rilevazione di Bankitalia. Gli analisti di Palazzo Koch, hanno messo in evidenza che le ricadute della crisi pandemica hanno annullato «il modesto recupero dei livelli occupazionali che si era registrato a partire dal 2016».
Considerando che in questo periodo erano in vigore una serie di iniziative messe in piedi dal Governo per contenere gli effetti della crisi pandemica sui livelli dell’occupazione – dal blocco dei licenziamenti, ai sostegni alle imprese non dimenticando soprattutto l’utilizzo massiccio del ricorso alla cassa integrazione – si può solo immaginare cosa sarebbe successo senza queste misure e cosa potrà accadere in Calabria quando tutti questi provvedimenti termineranno. A partire appunto dallo sblocco dei licenziamenti. Senza una ripresa robusta dell’economia reale – quella cioè capace di produrre occupazione “vera” – il rischio di una deriva socio-economica ancora più marcata dei territori calabresi potrebbe divenire realtà. Una priorità che dovrà entrare al primo punto della agenda del governo regionale che uscirà dalle urne. (r.desanto@corrierecal.it)
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